Il lupo (Canis lupus) nel corso dei secoli non ha mai avuto vita facile, considerato come una specie nociva è stato sistematicamente sterminato in Europa centrale fino alla sua totale scomparsa nei primi decenni del Novecento. Tra il Settecento e l’Ottocento il lupo ha subito una progressiva eradicazione anche nell’est Europa e sulle Alpi, raggiungendo il minimo di popolazione tra gli anni ‘30 e ‘70 del Novecento. In Italia il minimo storico è stato toccato negli anni ’70, quando si contavano non più di 100 individui confinati in alcune aree dell’Appennino centro-meridionale. Ad oggi la situazione è completamente diversa, la popolazione di lupo (Canis lupus italicus*) in Italia è cresciuta ed ha migliorato il suo status di conservazione grazie alle tutele legali, all’aumento tanto delle foreste quanto delle prede e anche grazie alla sua grande adattabilità e resilienza. Il lupo ha ricolonizzato spontaneamente buona parte della Penisola, compresa una porzione significativa dell’arco alpino, da ovest verso est, fino a raggiungere anche il Friuli Venezia Giulia. Per datare la presenza accertata del lupo in Friuli Venezia Giulia bisogna andare al 2013, quando grazie alle attività di monitoraggio svolte dalla Regione FVG e dall'Associazione Therion, sono state rilevate tracce inequivocabili nelle Pre Alpi Carniche pordenonesi. Negli anni successivi, grazie ai monitoraggi del progetto Life WolfAlps è stato possibile confermare la presenza del lupo nella Val Tramontina (PN) e nuovamente nelle Pre Alpi Carniche, fino al 2018 quando è stata documentata la prima riproduzione di lupo in regione, nella zona di Sequals (PN).
Dal 2018 ad oggi le segnalazioni di avvistamenti di individui singoli o in branco sono numerose e provengono da quasi tutta la regione (l'ultimo avvistamento di un lupo è di febbraio a Coseano (UD)), testimoniando un rapido processo di colonizzazione in atto nella regione; un territorio con ancora ampie zone con un alto valore naturalistico, dove si incrociano i flussi dispersivi di lupi provenienti dall’area alpina e da quella balcanica. Nel 2022 le stime ufficiali, diramate dal corpo regionale forestale, riportano che il lupo è ormai stabilmente presente in regione con almeno 4-6 branchi riproduttivi, nell’alta pianura e nella pedemontana Pordenonese, nell’area del Cansiglio, in Carnia e nel Tarvisiano, mentre individui in dispersione, in cerca di nuovi territori e partner, vengono segnalati in molte altre località sia di pianura che di montagna. Seppur la presenza del lupo in regione sia sempre maggiore, siamo ancora molto lontani dai numeri che si registrano in Appennino o nelle Alpi occidentali, dove sempre più spesso la presenza di questo carnivoro crea dei malcontenti soprattutto tra gli allevatori. Attualmente, in Friuli Venezia Giulia, la più grande minaccia per il lupo è rappresentata dagli investimenti stradali, che dal 2018 ad oggi hanno fatto registrare almeno una decina di casi, l’ultimo dei quali nel mese di febbraio 2022, non lontano da Socchieve. Con l’aumento degli individui l’interazione con le attività umane sarà sempre maggiore e l’opera di sensibilizzazione verso le comunità e chi opera e vive a stretto contatto con il territorio sarà fondamentale per la conservazione di questa specie e per una convivenza pacifica. * Il lupo presente in Italia rivela alcune caratteristiche genetiche riconoscibili e peculiari non rinvenibili in individui di altre popolazioni. Attualmente il lupo italiano è ritenuto un ecotipo di quello europeo (Canis lupus lupus), da cui è rimasto isolato per oltre un secolo. * Leggi anche: Link utili:
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Se ti aspettavi un articolo in cui scoprire i segreti su cosa sia meglio mangiare per migliorare le proprie prestazioni durante un’escursione…beh mi dispiace ma qui non troverai questo. Per quanto mi piaccia fare lunghe escursioni, con camminate, sentieri difficili e qualche prova di agilità, non studio la mia alimentazione ottimale per raggiungere risultati migliori. Il trekking per me è un hobby, per cui mi godo semplicemente un bel panino arrivato in cima. Il menu principale delle mie escursioni prevede infatti un panino (anche due!) bello grande farcito con prosciutto, mortadella o meglio ancora salame. Credo che non ci sia niente di più soddisfacente, dopo tanta fatica in salita, che scartare il proprio pranzo e addentarlo con foga davanti ad un bel panorama. Il panino è uno dei pranzi preferiti dagli escursionisti perché è veloce da preparare, pratico e piccolo da portare nello zaino, con un gusto da voto diesci! Solitamente oltre al panino non mi dimentico mai di portare anche degli snack per le pause: frutta fresca, secca o cioccolata, contengono zuccheri e calorie per ripartire ed evitano di lasciare immondizie, quando opto per qualcosa di confezionato uso le barrette energetiche: una fonte affidabile di energia che uso per i trekking di più giorni dove la stanchezza può assalirti da un momento all’altro. Quando lo zaino, invece, è abbastanza vuoto e il tempo lo permette, mi piace anche preparare qualcosa all’arrivo: dal risotto liofilizzato pronto alla mini grigliata di carne con il mio fornetto (Bushbox) o nelle cucine attrezzate dei rifugi non gestiti (ricordatevi di lasciare tutto pulito e un po’ di legna per chi verrà dopo!). Quando invece in cima c’è un rifugio gestito mi organizzo prima della partenza, in modo da fermarmi per un pasto: oltre a trovare sempre un’ottima cucina, sono convinto che sia utile sostenere queste attività con una sosta di ristoro, per una birra e una fetta di torta o un lauto pranzo. Un’alternativa che più volte ho usato è Bivo, un alimento in polvere naturale che sostituisce i pasti. Ho provato Bivo in diversi gusti e in trekking più e meno lunghi e faticosi, e mi piace perché è un prodotto sostenibile, naturale, made in Italy, ed è pensato per chi pratica sport. Quando ho percorso l’Alta via del Centenario ho portato con me Bivo perché era impensabile mettere nello zaino scorte di pane, prosciutto o cibi secchi, così mi sono procurato 4 buste di Bivo, la quantità d’acqua che mi serviva e l’apposita borraccia. Farsi il pranzo è facile quanto berlo: basta agitare il contenuto di una busta con 300 ml di acqua. Fin dal primo utilizzo mi sono accorto dei benefici: azzeramento del senso di fame, buona idratazione, ricarica energetica e gusto deciso, che rende piacevole sostituire un pasto tradizionale con Bivo. Questa è un’ottima soluzione se vuoi salvare un po’ di spazio nello zaino per le uscite outdoor più lunghe o semplicemente se vuoi essere sicuro di avere con te un pasto rapido da preparare, indicato per l’attività sportiva. Se vuoi saperne di più ti invito a visitare il sito www.bivo.it dove eventualmente puoi utilizzare il codice “themountainrambler” per usufruire del 10% di sconto. Come ultimo appunto ti ricordo di non sottovalutare l’aspetto relativo all’idratazione: l’acqua infatti aiuta a regolare la temperatura corporea, veicola i nutrienti e l’ossigeno, consente l’eliminazione dei cataboliti fisiologici ed aiuta anche a ridurre le perdite di concentrazione. La fatica potrebbe inibire il nostro senso di sete e quindi, soprattutto d’inverno, è importante ricordarsi di bere spesso. Per le mie escursioni utilizzo due borracce da 0,6 l, che eventualmente ricarico durante il percorso se trovo delle sorgenti d’acqua.
La tematica sull’alimentazione per i trekking è molto vasta e ci sono un sacco di scuole di pensiero. Chi volesse affrontare la tematica in modo più dettagliato e preciso, soprattutto per affrontare trekking impegnativi o per sostenere performances ad alto livello, necessita di piani personalizzati basati sullo studio delle caratteristiche fisiche personali; cosa che può fare solo un professionista. Andare in montagna ha un significato diverso per ognuno di noi: c’è chi la frequenta per sfuggire dalla città, c’è chi cammina per stare a contattato con la natura e cercare panorami da ammirare, oppure c’è chi si reca in montagna per praticare altri sport, come l’arrampicata o il canyoning. A volte si va per caso, per esempio con l’invito di un amico appassionato e poi ci si ritorna perché nasce una nuova passione. La maggior parte delle gite e delle escursioni in montagna la si fa con gli amici o in gruppo, anche se nell’immaginario comune, chi frequenta molto la montagna è visto come un solitario, un eremita, capace di socializzare quanto il nonno di Heidi. In effetti per molti escursionisti, esplorare la montagna è un’attività da fare in solitaria, percorrendo in silenzio i sentieri, godendosi i rumori della natura e i paesaggi che questa ha da offrirci. Nell’immaginario comune viene spontaneo associare la montagna ad un’attività solitaria, però l’andare per monti da soli è quasi sempre visto come un’attività pericolosa da non fare assolutamente. Questa convinzione è molto radicata, soprattutto tra chi frequenta di rado la montagna. Spesso sento frasi come: “Non andare da solo, è pericoloso” o “Andare in due è meglio ed è più sicuro”; ma siamo davvero convinti che andare in montagna da soli sia più pericoloso che in compagnia? Per quanto mi riguarda non sono completamente d’accordo con queste affermazioni e in questo articolo vorrei sfatare alcuni miti che non ritengo fondati. Partiamo dalle ragioni per cui si ritiene che le escursioni in montagna in solitaria siano un’attività pericolosa. Ovviamente il primo pensiero va alla possibilità di incorrere in un incidente, una scivolata, una caduta, un trauma, tutte situazioni dove l’aiuto di un compagno d’avventura sicuramente può essere di grande aiuto. Ma facciamo un passo indietro, essere in compagnia riduce il rischio di incidente? Il fatto di essere soli o in compagnia non influisce sulla la probabilità che accada un certo evento dannoso e purtroppo se l’incidente risulta fatale, essere in compagnia o no è totalmente ininfluente. Come spiego in questo articolo (clicca qui), in montagna non esiste il pericolo zero e quindi bisogna affrontare escursioni adatte alla propria preparazione fisica, al proprio grado di esperienza e conoscenza del luogo: sono proprio questi fattori che ci espongono maggiormente o minormente a eventuali pericoli nell’attività che abbiamo deciso di praticare. Parlando di esperienze personali, ho notato che le volte in cui esco da solo, sono molto più vigile e attento, sono padrone del mio tempo e di come impiegarlo e, se ho qualche dubbio, è molto più facile che torni indietro sui miei passi. Sono solo io che decido cosa sia meglio fare o non fare, ho forse più paura per quello che faccio e più rispetto per quello che mi circonda. Quando si è in compagnia si parla, si scherza, si ride e la soglia di attenzione è sicuramente più bassa, inoltre potrebbe scattare una sorta di meccanismo di sfida, per cui se un nostro compagno ce la fa allora io non devo essere da meno. Soprattutto in determinate escursioni è importantissimo scegliere i giusti compagni d’avventura, altrimenti il fatto di essere in più persone potrebbe rilevarsi controproducente. Ed è altrettanto importante saper valutare le capacità di ciascun compagno d’avventura ed eventualmente “abbassare” le proprie prestazioni per non creare disparità nella progressione. Detto questo, non voglio assolutamente far passare l’idea che andare in montagna da soli sia meglio che in compagnia. Ritengo che l’escursione in solitaria sia uno dei modi di vivere la propria passione, prima di urlare “non si va in montagna da soli” bisogna provare, cominciando magari da una breve passeggiata nel bosco dietro casa.
Nel caso in cui l’escursione sia in gruppo oppure in solitaria, facile o difficile, un’attenta pianificazione dell’itinerario e la consapevolezza di cosa siamo in grado di fare sono presupposti estremamente importanti per ridurre il pericolo soggettivo. Poi durante l’escursione è importante non farsi cogliere impreparati, col rischio di tentare l’escursione di fronte a evidenti ostacoli, andando incontro a rischi che si potevano evitare. Questo genere di situazioni genera circa il 25% degli interventi del soccorso alpino in un anno (dato del 2018). Quindi in conclusione, per come la vedo io, la forma corretta della famosa frase dovrebbe essere; “non si va in montagna da soli, senza lasciar detto dove si va, senza un allenamento adeguato e senza la giusta attrezzatura”. Tu come la pensi? Ti sei mai trovato in una situazione di pericolo da solo o con altre persone e come l’hai gestita? Mi piacerebbe saperlo e condividere alcune delle vostre esperienze, lascia un commento qui sotto! La montagna d’inverno offre molte attività sportive, non solo lo scii su pista o lo scii d’alpinismo, ma anche escursioni a piedi con le ciaspole, per godersi il panorama della montagna innevata. A volte però scarponi e ciaspole possono non bastare per affrontare l’itinerario che hai programmato; non è insolito infatti trovare tratti o interi sentieri ghiacciati, e allora avrai bisogno di avere con te dei ramponi. I ramponi sono degli strumenti metallici da posizionare sullo scarpone e che, grazie ad una serie di punte affilate nella parte inferiore, permettono l’aderenza su superfici innevate o ghiacciate. Per le escursioni impegnative ti serviranno dei ramponi da 10 o 12 punte da calzare su scarponi con suola rigida tramite appositi sistemi di aggancio, mentre per le camminate più semplici puoi utilizzare i ramponcini, che possiedono punte più piccole e si possono utilizzare su qualsiasi tipo di calzatura grazie alla fascia in gomma. Le punte e il sistema di aggancio sono le caratteristiche principali su cui basarti quando scegli la tipologia di ramponi da comprare. Qui voglio darti qualche informazione utile per aiutarti a scegliere la tipologia più adatta alle tue attività. Per quanto riguarda i ramponi, tre sono i sistemi di aggancio allo scarpone:
Parlando del numero di punte, i ramponi classici da alpinismo possiedono fino a 12 punte (anche 14 quelli da cascata su ghiaccio), lunghe almeno un paio di centimetri ciascuna. Il numero, la lunghezza, l’inclinazione e la forma delle punte varia a seconda dell’attività per cui tali strumenti sono progettati. I ramponcini possono avere anche 19 punte lunghe circa un centimetro ciascuna, sono distribuite in modo regolare e non sono particolarmente affilate. Quali sono le differenze tra un rampone e un ramponcino? I ramponi hanno solitamente 10 o 12 punte, a seconda della specializzazione del rampone stesso. Uno a 12 punte avrà più grip e sarà utile nelle arrampicate e nei trekking più difficili. Solitamente sono fatti in acciaio, materiale più resistente che permette alle punte di resistere e non piegarsi. Sono dotati anche di un antibott o antizoccolo, una membrana in materiale plastico posta nella parte centrale del rampone che evita alla neve di attaccarsi tra le punte riducendo l’aderenza e aumentando il rischio di scivolare. I ramponcini sono degli aiuti per il movimento in condizioni di fondo ghiacciato su strade o facili sentieri, e non vanno bene per le condizioni più difficili. I ramponcini in particolare hanno punte più piccole e solitamente sono di alluminio, più leggero e indicato per situazioni meno difficili, si calzano grazie a una fascia di gomma e non hanno nessun sistema antizoccolo. Nello zaino occupano poco posto, solitamente hanno un costo minore rispetto ai ramponi e pesano pochissimo. Per queste caratteristiche sono sempre più diffusi tra gli escursionisti, ma mi preme ricordarti che non sono attrezzi da alpinismo e vanno utilizzati solo in quelle situazioni per cui sono stati progettati. Se stai già pensando al prossimo modello da acquistare, eccoti una lista di criteri importanti da tenere in considerazione per una perfetta esperienza invernale.
Conclusioni I ramponi sono strumenti molto utili sulla neve e sul ghiaccio, che assicurano stabilità e sicurezza su questo genere di superfici. Consistono in punte affilate che penetrano il terreno, e sono molto usati per attività e sport invernali come escursionismo, sci alpino o arrampicata su ghiaccio. I ramponi sono molto diversi tra loro, a seconda della quantità e del tipo di punte che hanno, del loro sistema di fissaggio e del materiale con cui sono fabbricati. In genere, sono in acciaio o alluminio, perfetti per resistere a condizioni climatiche rigide. È importante tenere in considerazione lo scopo per cui ne abbiamo bisogno prima di scegliere un modello specifico, così da poterli sfruttare al meglio. Se questo articolo ti è piaciuto, condividilo con i tuoi amici per fargli conoscere tutto quello che c’è da sapere sui ramponi! Leggi anche Quando andiamo in montagna, ma anche nella vita di tutti i giorni, a volte possono capitare degli infortuni o degli incidenti dovuti a disattenzioni o coincidenze negative (sfiga!). Avere nel proprio bagaglio di conoscenze delle nozioni di primo soccorso, può essere molto utile per affrontare nel migliore dei modi queste situazioni spiacevoli. Con il termine primo soccorso ci si riferisce a tutte quei comportamenti e manovre che possono essere effettuati da chiunque, per aiutare una persona infortunata, nell’attesa dell’arrivo dei soccorsi sanitari. Conoscere ed eventualmente applicare questi comportamenti può risultare fondamentale per salvare una vita e per tale motivo, chiunque dovrebbe avere almeno una preparazione base in caso di necessità. Se il primo soccorso è fondamentale in qualsiasi situazione, lo diventa ancora di più in montagna, quando potremmo essere distanti anche diverse ore dalla struttura medica più vicina. In ambiente antropizzato, il tempo di attesa tra la chiamata al numero di emergenza e l’arrivo dei sanitari si attesta intorno ai 10 minuti; un tempo che in montagna difficilmente può essere eguagliato, anche se dovesse intervenire l’elisoccorso. Ecco quindi che risulterà fondamentale garantire un supporto alla persona infortunata dal momento della chiamata e fino all’arrivo dei tecnici del Soccorso Alpino. Gli infortuni che possono capitare in montagna sono vari, strettamente legati al tipo di attività che si sta svolgendo e all’ambiente dove ci si muove. Volendo definire una lista di infortuni che potrebbero capitare durante le nostre attività all’aperto, un escursionista dovrebbe essere in grado di prestare un primo soccorso in caso di; escoriazioni, traumi, ferite da taglio, e slogature. Nei casi di infortuni più grave si potrebbe aver a che fare con fratture (scomposte o esposte) trauma cranico ed arresto cardiaco, situazione nella quale sarà fondamentale effettuare il massaggio cardiaco, eventualmente coadiuvato dalla respirazione bocca a bocca. Oltre a questi infortuni, si potrebbe aver a che fare con degli stati di malessere come, disidratazione, spossatezza, ipotermia e principi di congelamento, fino ad arrivare al mal di montagna se ci si trova a quote molto elevate.
Un corso base di primo soccorso (B.E.P.S.) fornisce tutte le conoscenze per affrontare nel migliore dei modi tutti i possibili infortuni che possono capitare in montagna, ma anche nella vita di tutti i giorni. Tali corsi solitamente vengono organizzati dalla Croce Rossa Italiana, hanno una durata di una ventina di ore durante le quali vengono affrontati i diversi tipi di infortunio e viene spiegato cosa fare per portare un primo aiuto alla persona infortunata. Alle lezioni teoriche si alternano delle lezioni pratiche, in cui è possibile provare le azioni e le manovre che dovranno essere messe in atto in caso di necessità. Come dicevo all’inizio, queste semplici nozioni possono essere davvero utili in svariate situazioni, e soprattutto se sei solito frequentare le montagne e la natura in generale, ti consiglio caldamente la partecipazione ad un corso base di primo soccorso. Leggi anche: Con il diffondersi dei ricevitori GPS nel mondo dell’escursionismo, le mappe digitali sono sempre più diffuse ed utilizzate. I cosiddetti GPS cartografici sono in grado di visualizzare sullo schermo un’icona che rappresenta la nostra posizione, i waypoint e la traccia del nostro spostamento. La base cartografica su cui il GPS proietta le informazioni di posizione sono per l’appunto mappe digitali, memorizzate all’interno di questo, in modo da essere utilizzate anche senza connessione internet. Le mappe in formato digitale possono essere di due tipi: raster o vettoriali, e hanno caratteristiche molto diverse tra loro. Entrambi i formati sono utilizzabili dai più comuni GPS cartografici e dagli smartphone, ma possono essere consultate anche da pc e in generale da qualsiasi device in grado di visualizzare dati cartografici (es: smartwatch). Tra i due formati non esiste uno migliore ed uno peggiore, entrambi hanno dei punti di forza e dei punti di debolezza. In base allo scopo, alla disponibilità dei dati e al device in nostro possesso potremo decidere se utilizzare cartografia digitale in formato raster o vettoriale. Ma quali sono le differenze tra raster e vettoriale? Le mappe raster non sono altro che delle immagini, formate da una matrice di punti colorati con stessa forma e dimensione; i pixel. Una mappa raster solitamente viene generata a partire da scansioni o foto di mappe cartacee, da immagini satellitari o da immagini aeree. Il contenuto informativo e la qualità di queste mappe è strettamente legato alla carta o alle immagini di partenza. Infatti tutte le informazioni sono unite in un unico strato (non si possono disaggregare), non è possibile aggiungere informazioni ulteriori rispetto a quelle native ed il livello di zoom, prima che l’immagine sgrani, dipende dalla risoluzione dell’immagine; ovvero dal numero di pixel contenuti nell’unità di misura considerata (solitamente pixel per pollice). Le immagini raster, una volta digitalizzate, vanno georiferite affiche il nostro GPS sia in grado di proiettare correttamente la nostra posizione su essa. Il processo di georeferenziazione non fa altro che assegnare una coppia di coordinate a ciascun pixel in modo da posizionare correttamente nello spazio la nostra immagine. Se di qualità, le mappe raster, forniscono un sacco di informazioni ma occupano molta memoria all’interno del GPS.
Le mappe vettoriali invece, sono costituite da forme geometriche come punti, linee e poligoni a cui vengono attribuite determinate caratteristiche di colore, campitura e spessore. L’insieme di questi elementi geometrici vengono utilizzati per rappresentare tutti gli oggetti presenti in una carta (es: poligoni per gli edifici). Poiché le immagini vettoriali sono costituite da forme geometriche è possibile ingrandirle all’infinito, senza perdere minimamente risoluzione; inoltre tali dati occupano molto meno spazio rispetto alle immagini raster. Un’altra caratteristica importante delle mappe vettoriali è quella per cui, a ciascun elemento vettoriale della mappa può essere associata una scheda di attributi. Tale scheda fornisce informazioni sull’elemento e tali informazioni possono essere utilizzate per classificare i vettori in vari modi e poi aggregarli su livelli omogenei, così che possano essere attivati o disattivati. Le carte vettoriali vengono realizzate a partire da ricalco di immagini aeree o satellitari, nuvole di punti ottenute con tecnologia LiDAR o rilievi sul campo. Tali mappe sono perfette per essere utilizzate dai GPS ma in caso di necessità possono anche essere stampate su carta. Sia le carte raster che quelle vettoriali possono essere importate nei più comuni GPS cartografici o sui nostri smartphone. Carte raster ben realizzate forniscono molte informazioni e hanno un’alta resa grafica, di contro occupano molta memoria. Le carte vettoriali sono molto più leggere ma agli occhi dei meno esperti possono risultare di più difficile lettura. Leggi anche: La carta topografica e la bussola sono da sempre compagni indispensabili per l’escursionista. Già da diversi anni è apparso sulla scena un nuovo strumento per ricavare la propria posizione; sto ovviamente parlando del ricevitore GPS cartografico. Con il calo dei prezzi, mappe digitali sempre più complete e una precisione molto alta, il GPS è sempre più diffuso tra chi pratica l’escursionismo e pian piano sta prendendo il posto di carta e bussola. La tecnologia GNSS (Global Navigation Satellite System) ha fatto passi da gigante, garantendo precisioni molto alte anche per antenne piccole e ormai chiunque possiede uno smartphone che, tramite app, può essere trasformato in pochi minuti in un GPS cartografico. La diffusione del GPS ha portato l’escursionista a poter scegliere tra due sistemi per l’orientamento; uno classico formato da carta e bussola ed uno tecnologico basato sulla tecnologia GNSS. Di primo acchito si potrebbe pensare che il GPS sia infallibile ed indispensabile e che carta più bussola siano ormai superati e appartenenti ad un’epoca ormai passata; in realtà entrambi gli strumenti hanno dei pregi e dei difetti, così che non è possibile definire in modo certo quale sia il migliore in qualsiasi situazione. Partendo dai pregi del GPS, questo permette di avere in un unico strumento la bussola, la carta, l’indicazione delle coordinate e l’altimetro. Resiste bene alle intemperie e può essere usato facilmente anche in cattive condizioni atmosferiche. Se aggiornato consente l’utilizzo di mappe sempre aggiornate e di tutte le zone. Inoltre fornisce la possibilità di registrare tracce delle uscite, punti di interesse e di sapere il dislivello percorso, anche in tempo reale. Non ostante i molti pregi ci sono anche dei difetti; il GPS racchiude molte funzionalità tutte in uno strumento e se dovesse danneggiarsi o spegnersi si potrebbe restare senza alcuno strumento di navigazione. Inoltre funziona a batterie e queste soffrono gli sbalzi di temperatura o le temperature estreme. Infine con uno schermo di pochi pollici si ha una scarsa visione di insieme e la consultazione non risulta sempre rapida ed agevole. Parlando invece della carta topografica, questa è praticamente eterna se ben conservata, ed assieme alla bussola più eventualmente un goniometro, non necessita di nient'altro per potersi orientare e stabilire una rotta. La carta permette di osservare un’ampia porzione di territorio, è semplice da utilizzare e da leggere, purché si conoscano alcune nozioni base. Per quanto riguarda gli aspetti negativi, in condizioni meteo avverse o con l’oscurità può risultare difficile se non impossibile, consultare la carta e prendere decisioni. La carta può bagnarsi, si può strappare, volare via con il vento o può essere vecchia e quindi non aggiornata rispetto alla realtà. Inoltre per sfruttare al massimo la carta bisogna conoscere nozioni base di cartografia, semplici da imparare ma non sempre intuitive.
Come vedi, per entrambi esistono pregi e difetti. Il GPS cartografico potrebbe sembrare più semplice da utilizzare e più efficace, in realtà per utilizzarlo in modo corretto è altresì importante conoscere le nozioni base sulla lettura della carta topografica e sul funzionamento del sistema GNSS. La carta e il GPS sono entrambi strumenti validi che lavorano bene da soli ma possono anche convivere e sopperire quindi ai difetti di uno e dell’altro. Le carte topografiche solitamente non hanno costi eccessivi, mentre per quanto riguarda i GPS cartografici, questi hanno diversi prezzi che partono da almeno un centinaio di euro. Volendo risparmiare, senza rinunciare ad un buon grado di precisione, tutti gli smartphone possono diventare dei GPS cartografici tramite app (Oruxmap, ViewRanger…), che permettono di utilizzare e consultare cartografia offline. Ormai tutti abbiamo uno smartphone in escursione e questo, unito ad una carta topografica, può formare una coppia vincente per non perdere mai la strada. Leggi anche: Fino a non molti anni fa, quelli che utilizzavano i bastoncini da trekking erano davvero in pochi. Oggi invece sono uno strumento molto diffuso, che al pari di zaino e scarponi vanno ad identificare l’escursionista. Per quanto mi riguarda, ho iniziato ad utilizzare i bastoncini solo da alcuni anni, soprattutto dopo la tre giorni lungo la traversata cranica, dove ho potuto apprezzare per la prima volta i vantaggi nell’utilizzo dei bastoncini. La diffusione di tale strumento non va assolutamente vista come semplice moda, camminare con l’ausilio dei bastoncini porta indubbi vantaggi durante la progressione, sia in salita che in discesa. Per quanto mi riguarda, il vantaggio principale nell’utilizzo dei bastoncini, è quello di avere un migliore equilibrio nella camminata. Usando i bastoncini, si hanno sempre almeno tre punti di appoggio e questo garantisce un maggiore equilibrio e molta più stabilità durante la camminata, soprattutto in caso di zaino molto pesante. Un secondo vantaggio è dato dal fatto che, utilizzando anche le braccia andiamo a sgravare un po’ di peso e di fatica dalle articolazioni delle gambe, dai quadricipiti e dai polpacci, rendendo il trekking un po’ meno faticoso per le nostre gambe. Inoltre utilizzando anche le braccia, la nostra camminata sarà più fluida e andremo a muovere in maniera più incisiva anche i muscoli della parte superiore del corpo, che solitamente utilizziamo di meno durante un’escursione. Assieme ai vantaggi, possiamo trovare anche degli svantaggi per l’uso dei bastoncini, che comunque possono essere facilmente limitati. Questi potrebbero essere d’intralcio in quelle situazioni in cui è opportuno avere le mani libere; su tratti impervi, rocciosi o attrezzati l’utilizzo dei bastoncini potrebbe diventare pericoloso e quindi è meglio riporli ripiegati nello zaino. Nella progressione con i bastoncini, in caso di escursione con altre persone potrebbe capitare di colpire o essere colpiti da un bastoncino, soprattutto in fase di spinta. Per evitare questo è necessario mantenere una distanza di sicurezza da chi ci precede e prestare attenzione nel piantare a terra il bastoncino. I bastoncini da trekking possono essere in alluminio o in carbonio, più leggeri ma decisamente più costosi. Il vantaggio del carbonio sta ovviamente nel peso, ma in caso di caduta, se incriniamo il bastoncino, questo sarà da buttare. L’alluminio invece pesa un po’ di più, ma in caso di una piegatura non troppo accentuata sarà comunque possibile continuare ad utilizzare il bastoncino. Il sistema di blocco può essere a morsetto oppure a vite mentre l’impugnatura può essere in gomma dura, neoprene o sughero. Solitamente vengono venduti con due set di rotelle, uno con diametro più grande per la neve e uno con diametro più piccolo. Le rotelle piccole vanno utilizzate sempre in quanto evitano che il bastoncino si infili eccessivamente nel suolo in caso di terreno molle.
Al di là di alluminio o carbonio, scelta molto personale e di portafoglio, però mi sento di consigliarti dei bastoncini con l’impugnatura in neoprene (ottimo grip e confortevole al tatto) e con il sistema di serraggio a morsetti, più comodi, rapidi e precisi del serraggio a vite. Le carte sono da sempre uno strumento utilissimo perché ci mostrano il mondo intorno a noi, ci permettono di localizzare i luoghi, di misurare distanze e di individuare la nostra posizione. In sostanza ci aiutano ad orientarci nello spazio. Ormai la moderna tecnologia offre numerose soluzioni per seguire un percorso senza perdere l’orientamento; però non dobbiamo mai dimenticare che le batterie non sono infallibili e non sempre c’è segnale (GPS o GSM). Per tali motivi è molto importante saper leggere una carta “tradizionale”; poi le stesse nozioni saranno applicabili anche alla cartografia digitale. Tutte le carte topografiche sono realizzate seguendo delle regole ben definite, perciò imparare a leggerle non è così difficile come può sembrare. Ci sono degli elementi che sono fondamentali e che vanno tenuti in considerazione per una corretta lettura della carta. Il primo elemento di cui ti parlo è la scala; questa non è altro che la proporzione tra la grandezza di ciò che viene rappresentato dalla carta e la grandezza reale del luogo rappresentato. Questo dato, importantissimo, consente di calcolare la distanza reale tra i vari luoghi partendo da una misura presa sulla carta. Ad esempio, se una carta è realizzata con la scala 1:25.000, significa che un centimetro sulla carta corrisponde a 250 metri nella realtà. A seconda della carta potremo avere una scala diversa e di solito questa viene indicata in copertina e in legenda. Il secondo elemento importante è proprio la legenda; ossia la chiave di lettura di tutti i simboli utilizzati nello spazio carta. Si tratta normalmente di una simbologia standard, ma cambia a seconda del tipo di carta che stiamo leggendo (es: carta geologica o carta escursionistica). Quindi è importante familiarizzare con i simboli utilizzati dalla carta che si dovrà utilizzare. Il terzo elemento è quello che ci fornisce la tridimensionalità di una carta. Sto parlando delle isoipse o curve di livello; ovvero linee immaginarie tracciate sulla carta, che uniscono tutti i punti che si trovano ad una stessa quota dal livello medio del mare. Le isoipse, oltre a fornire la quota di un punto, sono uno strumento utile per leggere la conformazione del terreno, individuare pianori o ripide scarpate e capire l’andamento di un sentiero. Un altro fattore importante da osservare sono i colori utilizzati e lo sfumo. I toni scuri solitamente indicano quelle zone coperte da boschi, i centri abitati, le distese e corsi d'acqua, mentre i toni chiari indicano sentieri, strade, pascoli, ghiacciai e rocce. Lo sfumo, invece, consiste nel mettere in risalto i rilievi con delle ombreggiature, ipotizzando che il sole sia a nordovest e disegnando le ombre sui versanti a sudest. Questo espediente serve a dare tridimensionalità alle carte e facilitarne così la lettura. Una volta che saremo in grado di riconoscere i singoli elementi topografici sulla carta, sarà importante saper cogliere i rapporti fra di essi, ottenendo una visione completa del territorio rappresentato, così da muoverci su di esso con estrema sicurezza. Ad esempio, uno dei rapporti maggiormente utilizzati nella lettura di una carta è quello esistente tra un sentiero e le curve di livello: se il sentiero corre parallelo alle isoipse significa che il tratto sarà pianeggiante; se invece il sentiero taglia le isoipse attraversandole, significa che la pendenza sarà elevata. Un altro rapporto utile è quello tra isoipse a diversa quota. Infatti, l’esame di una curva di livello in rapporto alle altre, permette di capire la morfologia del terreno, la pendenza di un versante e di individuare creste o valli. Infine, una nozione molto importante da conoscere è quella che, per leggere ed utilizzare correttamente una carta, è fondamentale tenerla orientata. Una carta è orientata quando il nord geografico e il nord della carta (lato superiore della carta topografica) sono coincidenti. Quindi per orientare la carta, basta ruotarla fino a che gli elementi topografici in essa rappresentati, non vengano a disporsi come sul terreno: ciò che vediamo ad est sul terreno, lo sarà anche sulla carta, così come ciò che sta a nord e così via. Con l’ausilio di una bussola lo si può fare rapidamente e con un buon grado di precisione; appoggia la bussola sul bordo destro o sinistro della carta, tenendo insieme carta e bussola ruota il tutto fino a che l'ago magnetico si dispone parallelo al bordo della carta e con la punta rossa dell'ago rivolta al nord della carta.
Alla fine leggere correttamente una carta non è poi così difficile, alcune nozioni base di cartografia e una buona carta topografica sono sufficienti per pianificare un itinerario in tutta sicurezza e capire quale sentiero intraprendere durante un’escursione. Leggi anche: Link utili:
Spesso quando si parla di montagna e di escursionismo, una delle immagini più ricorrenti e caratteristiche è quella del rifugio alpino. Queste strutture, nate in passato per aiutare i viandanti o i pellegrini che attraversavano le Alpi, hanno poi offerto riparo agli alpinisti ed esploratori che dalla metà dell’800 sfidavano se stessi e la natura per conquistare le principali vette alpine. Poi con il passare degli anni e la nascita delle discipline sportive e ludiche legate alla montagna, queste strutture hanno subito un profondo cambiamento, sia nei servizi offerti che nella fruizione da parte degli escursionisti. Negli ultimi vent’anni, con lo sviluppo del turismo di montagna, i rifugi sono diventati piccoli alberghi che, pur offrendo in molti casi solo servizi essenziali, ospitano non solo alpinisti ed escursionisti, ma anche turisti desiderosi di passare una notte in alta montagna, o semplicemente di consumare un pasto caldo durante una gita in montagna. I rifugi alpini, da punto di partenza per i frequentatori della montagna si sono trasformati in punto di arrivo per la grande maggioranza di escursionisti e turisti. Strutture vecchie e con pochi servizi sono state ristrutturate e rese più confortevoli, snaturando in alcuni casi la natura spartana del rifugio, ma compiendo in altri una fondamentale opera per la conservazione di queste strutture. I rifugi alpini sono distribuiti in maniera abbastanza uniforme su tutto l’arco alpino e appenninico, alcuni sono facilmente raggiungibili, altri sono più isolati o necessitano di compiere un gran dislivello per raggiungerli; come ad esempio la Capanna Regina Margherita, il rifugio più alto d’Europa.
Che sia un rifugio isolato e spartano o uno facilmente raggiungibile, ti consiglio di provare almeno una volta l’esperienza di passare una notte in una di queste strutture. Il periodo di apertura dei rifugi in genere va dai primi di giugno a metà settembre, più qualche week-end a primavera o in autunno in caso di condizioni climatiche favorevoli. Queste strutture offrono servizi simili a quelli di una struttura alberghiera ma in modo più semplice e familiare; non aspettarti però di ricevere un trattamento come se fossi in uno chalet di qualche località sciistica.
Quasi tutti i rifugi offrono la soluzione della mezza pensione con cena (primo, secondo, dolce), pernottamento e colazione (bevande escluse). Le camere solitamente sono da due, quattro o sei letti e poi ci sono almeno un paio di stanzoni che possono ospitare anche venti letti. Tutti i letti hanno il materasso, il cuscino e numerose coperte per affrontare nel miglior modo anche le notti più fredde. Le lenzuola non vengono fornite, quindi è obbligatorio utilizzare un sacco letto, praticamente un lenzuolo piegato a metà e cucito da un lato che una volta ripiegato occupa poco spazio nello zaino. I bagni sono rigorosamente in comune e il lusso di farsi una doccia non sempre può essere soddisfatto; dipende dalle riserve d’acqua del rifugio. In ogni caso, sono sempre disponibili degli ampi lavabi dove puoi lavarti a pezzi; ti avverto però che in questo caso l’acqua sarà gelida, un toccasana per riprendersi dalla fatica della camminata. Per l’igiene personale ti consiglio un kit da viaggio con spazzolino, dentifricio e piccola saponetta; porta anche un asciugamano leggero in tessuto sintetico, occupa poco posto e si asciuga in fretta. Nella zona notte è vietato camminare con le scarpe, quindi molti rifugi mettono a disposizione delle ciabatte ad uso comune; se preferisci puoi portarne un paio da casa. Nei rifugi la corrente elettrica è un bene prezioso, solitamente verso le 22:00 le luci vengono spente. Se hai bisogno di alzarti o cercare qualcosa in camera ti servirà una torcia elettrica; qualsiasi torcia può andare bene ma io ti consiglio di utilizzare una torcia frontale, poco ingombrante e permette di avere entrambe le mani libere. L'ultimo consiglio che voglio darti, quello più prezioso, è di portare sempre un paio di tappi per le orecchie, soprattutto se passerai la notte nel camerone.
Infine devi sapere che la gran parte dei rifugi alpini sono di proprietà del CAI, in queste strutture vi è un’apposita bacheca con esposto il tariffario. Ricordati che i soci CAI, dietro esibizione della tessera con bollino pagato, avranno diritto a delle agevolazioni sul prezzo del pernottamento e del vitto. Se dopo aver letto questo articolo vorrai provare a dormire in una di queste strutture, potrai trovare quella più adatta a te con una veloce ricerca su internet nei siti regionali dedicati al turismo. Prima di partire è sempre bene prenotare, sia per essere sicuri di trovare posto ma anche per aiutare il gestore del rifugio ad organizzare le camere e i rifornimenti; buon pernottamento!
In montagna sono presenti anche strutture non gestite, come bivacchi e casere. Leggi anche l'articolo dedicato a queste strutture:
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Marzo 2022
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