Il lupo (Canis lupus) nel corso dei secoli non ha mai avuto vita facile, considerato come una specie nociva è stato sistematicamente sterminato in Europa centrale fino alla sua totale scomparsa nei primi decenni del Novecento. Tra il Settecento e l’Ottocento il lupo ha subito una progressiva eradicazione anche nell’est Europa e sulle Alpi, raggiungendo il minimo di popolazione tra gli anni ‘30 e ‘70 del Novecento. In Italia il minimo storico è stato toccato negli anni ’70, quando si contavano non più di 100 individui confinati in alcune aree dell’Appennino centro-meridionale. Ad oggi la situazione è completamente diversa, la popolazione di lupo (Canis lupus italicus*) in Italia è cresciuta ed ha migliorato il suo status di conservazione grazie alle tutele legali, all’aumento tanto delle foreste quanto delle prede e anche grazie alla sua grande adattabilità e resilienza. Il lupo ha ricolonizzato spontaneamente buona parte della Penisola, compresa una porzione significativa dell’arco alpino, da ovest verso est, fino a raggiungere anche il Friuli Venezia Giulia. Per datare la presenza accertata del lupo in Friuli Venezia Giulia bisogna andare al 2013, quando grazie alle attività di monitoraggio svolte dalla Regione FVG e dall'Associazione Therion, sono state rilevate tracce inequivocabili nelle Pre Alpi Carniche pordenonesi. Negli anni successivi, grazie ai monitoraggi del progetto Life WolfAlps è stato possibile confermare la presenza del lupo nella Val Tramontina (PN) e nuovamente nelle Pre Alpi Carniche, fino al 2018 quando è stata documentata la prima riproduzione di lupo in regione, nella zona di Sequals (PN).
Dal 2018 ad oggi le segnalazioni di avvistamenti di individui singoli o in branco sono numerose e provengono da quasi tutta la regione (l'ultimo avvistamento di un lupo è di febbraio a Coseano (UD)), testimoniando un rapido processo di colonizzazione in atto nella regione; un territorio con ancora ampie zone con un alto valore naturalistico, dove si incrociano i flussi dispersivi di lupi provenienti dall’area alpina e da quella balcanica. Nel 2022 le stime ufficiali, diramate dal corpo regionale forestale, riportano che il lupo è ormai stabilmente presente in regione con almeno 4-6 branchi riproduttivi, nell’alta pianura e nella pedemontana Pordenonese, nell’area del Cansiglio, in Carnia e nel Tarvisiano, mentre individui in dispersione, in cerca di nuovi territori e partner, vengono segnalati in molte altre località sia di pianura che di montagna. Seppur la presenza del lupo in regione sia sempre maggiore, siamo ancora molto lontani dai numeri che si registrano in Appennino o nelle Alpi occidentali, dove sempre più spesso la presenza di questo carnivoro crea dei malcontenti soprattutto tra gli allevatori. Attualmente, in Friuli Venezia Giulia, la più grande minaccia per il lupo è rappresentata dagli investimenti stradali, che dal 2018 ad oggi hanno fatto registrare almeno una decina di casi, l’ultimo dei quali nel mese di febbraio 2022, non lontano da Socchieve. Con l’aumento degli individui l’interazione con le attività umane sarà sempre maggiore e l’opera di sensibilizzazione verso le comunità e chi opera e vive a stretto contatto con il territorio sarà fondamentale per la conservazione di questa specie e per una convivenza pacifica. * Il lupo presente in Italia rivela alcune caratteristiche genetiche riconoscibili e peculiari non rinvenibili in individui di altre popolazioni. Attualmente il lupo italiano è ritenuto un ecotipo di quello europeo (Canis lupus lupus), da cui è rimasto isolato per oltre un secolo. * Leggi anche: Link utili:
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La notizia del ritorno del Castoro (Castor fiber) in Italia, dopo mezzo millennio di assenza, ha destato particolare interesse e curiosità non solo in ambiente scientifico. L’eccezionale avvistamento è avvenuto nella foresta di Tarvisio (UD) dove un giovane esemplare è stato immortalato dalle fototrappole installate dai ricercatori del Progetto Lince Italia. Si tratta indubbiamente di una scoperta dal grandissimo valore ecologico, considerando che la specie si estinse in Italia nel XVII secolo a causa della caccia indiscriminata. In Italia, ma anche in tutta Europa, il castoro veniva cacciato per la calda pelliccia, per la prelibata carne e per il “castoreo”, una sostanza oleosa secreta da alcune ghiandole, che secondo la tradizione dell'epoca aveva notevoli virtù terapeutiche. All’inizio del '900, in Europa, erano rimasti solo pochi esemplari nel bacino del Rodano, dell’Elba e in alcune zone umide nel sud della Norvegia; poi a partire dagli anni ’50 il grosso roditore è stato reintrodotto con diverse (e riuscite) campagne di ripopolazione dalla penisola scandinava fino alla Svizzera. Attualmente il castoro è ancora inserito tra le specie protette indicate nella direttiva Habitat (92/43/CEE) e dopo l'ultimo censimento effettuato nel 2006, il suo stato di conservazione è stato classificato come LC, ovvero rischio minimo. In Italia non è mai stato avviato un piano di reintroduzione per il castoro, quindi si presume che l’esemplare filmato a Tarvisio provenga dalla Slovenia oppure dall’Austria, con una propensione per la seconda ipotesi visto l’individuazione di alcune tracce del roditore in territorio austriaco a pochi chilometri dal confine. Lo sconfinamento del castoro austroungarico dimostra come nel produttivo e industrializzato nord est esistano ancora dei corridoi ecologici e delle aree ad elevato valore naturalistico dove specie autoctone che non si vedevano più da secoli possono ritornare ed eventualmente stabilirsi. Se effettivamente il castoro tornerà ad essere una presenza fissa in Friuli, sarà molto interessante osservare quale sarà l’impatto della specie sul territorio. Come tutti sanno il castoro viene definito “l’ingegnere della natura” per via della sua capacità di costruire cunicoli, tane articolate e dighe, che vanno a modificare il territorio dove si stabilisce. Tale modificazione operata dal castoro può avere aspetti positivi ma anche negativi; la creazione di invasi "artificiali" potrebbe attirare pesci, anatidi e altri animali acquatici, creando oasi naturalistiche pregevoli e ricche di biodiversità. Di contro però, le modifiche idrauliche potrebbero innescare danni anche notevoli, soprattutto in aree antropizzate o sfruttate per l’agricoltura, con inondazioni di intere aree, deviazioni di fiumi o torrenti e dissesti lungo gli argini fluviali. Ovviamente il ritorno di un singolo esemplare non causerà effetti tangibili nel breve periodo, sarà però estremamente interessante vedere che cosa accadrà nel lungo periodo.
Il Castoro europeo (Castor fiber) è il più grande roditore del mondo dopo il capibara; la sua lunghezza può andare dagli 80 ai 100 cm per un peso che generalmente si assesta tra gli 11 ed i 30 kg. Il corpo del castoro è massiccio, le zampe posteriori sono palmate e tutte le dita sono munite di artigli. La pelliccia è generalmente marrone-rossiccia sul dorso e più chiara o grigiastra sul ventre. Il castoro è un erbivoro stretto e la sua dieta è dettata principalmente dalla stagione. In estate si ciba prevalentemente di piante erbacee e legnose disponibili nei suoi dintorni, in inverno si ciba principalmente di cortecce e germogli di alberi e arbusti. Dal momento che il Castoro non è in grado di arrampicarsi, per raggiungere gemme e germogli abbatte semplicemente gli alberi utilizzando i suoi potenti incisivi. Leggi anche: Il cervo (Cervus elaphus), animale elegante e maestoso, è probabilmente il più imponente rappresentante della fauna selvatica italiana. Agli inizi del '800 a seguito della distruzione degli habitat idonei e della caccia sfrenata, la specie era scomparsa dalla gran parte del territorio italiano, salvo che nel Bosco della Mesola (Ferrara) ed in alcune limitate zone dell’Alto Adige. A partire dal XX secolo, gradualmente, la specie ha ricolonizzato le foreste Alpine e Appenniniche, sia grazie alla diffusione spontanea di esemplari dalla Svizzera, Slovenia e Austria sia grazie ad una serie di reintroduzioni operate dall'uomo. Ad oggi la distribuzione della specie in Italia interessa quasi uniformemente tutto l’arco Alpino; lungo l’Appennino invece la sua presenza è più discontinua e localizzata, con i nuclei più importanti insediati nell'Appennino Tosco-Emiliano e Tosco-Romagnolo, nel Parco Nazionale d’Abruzzo e nel Parco Nazionale del Pollino. Durante l'anno i maschi e le femmine solitamente vivono separati in piccoli gruppi monosessuali mantenendo un comportamento schivo e diffidente. Da metà settembre però inizia la stagione degli amori; in questo periodo, i maschi si separano ed iniziano a sfidarsi tramite bramiti per rivendicare il possesso delle femmine su altri pretendenti. Il bramito non è altro che un "urlo" eseguito dai maschi adulti che si sfidano per capire chi sia l'esemplare dominante in una determinata zona. La forza del bramito infatti dipende dalle dimensioni dell'animale e dalle sue condizioni fisiche; in caso di parità vocale i maschi si affronteranno in campo aperto, ma giungeranno ad uno scontro fisico solo dopo aver compiuto una parata fronte a fronte per osservare le dimensioni del palco e la robustezza dell'avversario. Quindi durante questo periodo, indicativamente da metà settembre a metà ottobre, il cervo raduna intorno a sé da 5 a 15 femmine, che custodisce gelosamente dai rivali a suon di bramiti ed eventualmente di scontri fisici.
La stagione degli amori è sicuramente il periodo migliore per ammirare questi maestosi mammiferi; i maschi sono molto meno cauti del solito e dove c'è un maschio sono presenti anche alcune femmine. I momenti migliori della giornata sono le ore crepuscolari, quando la loro attività è massima e sono concentrati nell'emettere potenti bramiti; ricorda che ascoltando attentamente potrai capire dove e quanti esemplari sono presenti in una determinata zona. Da metà ottobre in poi la stagione degli amori si esaurisce gradualmente e i maschi riprendono la loro vita normale frequentando zone a bassa quota dove si possono anche riunire in branchi. Le femmine allo stesso modo si riuniscono in branchi con anche la presenza dei maschi giovani e si muovono alla ricerca di luoghi sicuri dove trascorrere l'inverno. Se vuoi provare questa esperienza ma non sai dove andare prova ad informarti presso gli enti parco o le riserve naturali, spesso in autunno vengono organizzate escursioni finalizzate all'osservazione dei cervi nel periodo amoroso. Il Cuculo (Cuculus canorus), per gli amici Cucù, è un uccello migratore che trascorre l'inverno nelle foreste tropicali dell'Africa per poi migrare in Europa durante la bella stagione. Nei nostri boschi il suo inconfondibile canto si può ascoltare improvvisamente tra la fine di marzo e l'inizio di aprile, tanto che viene considerato da molti il premonitore dell'arrivo della primavera. Legato a questo, qui in Friuli, esiste un proverbio popolare che recita così: “quant ch’al cjante il cuc, une di ploe une di sut” che può essere paragonato all'italiano “Marzo pazzerello, guarda il sole e prendi l’ombrello”. Il Cuculo ha le dimensioni di una colomba, il dorso è di colore grigio cenere mentre il ventre è bianco striato di nero. Il suo comportamento è schivo, percorre il lungo viaggio di migrazione in solitaria e una volta giunto a destinazione ama il fitto della macchia, proprio per queste ragioni risulta poco conosciuto alla vista, mentre è molto amato per il suo canto. La sua natura schiva e il suo canto inconfondibile hanno particolarmente stimolato l’immaginario collettivo, in molte culture attorno a questo volatile sono nate credenze e fantasie, spesso legate ad auspici di prosperità e fortuna. Il Cuculo però è noto ai più per la sua peculiare caratteristica del parassitismo di cova; una forma particolare di parassitismo che si verifica quando una femmina depone le sue uova nel nido di una coppia di uccelli della stessa specie o di una specie differente. Il Cuculo quindi è a tutti gli effetti un uccello parassita che non costruisce il suo nido ma utilizza quello di altri volatili, soprattutto passeriformi. La femmina di Cuculo una volta individuato il nido dei malcapitati (e inconsapevoli) genitori adottivi aspetta che questi depongano le uova e alla prima occasione si introduce nel nido. A questo punto elimina una delle uova presenti, depone il suo uovo e vola via. L’uovo del Cuculo si schiude in un tempo nettamente inferiore rispetto a quelli del passeriforme (circa 12 giorni grazie alla incubazione interna dell’uovo) e appena il pulcino viene alla luce, seguendo un istinto insito nei suoi geni, si sbarazza delle altre uova presenti nel nido non ancora schiuse. I genitori adottivi vengono ingannati da questo comportamento e nutrono il cuculo come se fosse un proprio nidiaceo per 2-3 settimane fino all’involo. I genitori adottivi ovviamente non si accorgono dell’inganno, ogni femmina di Cuculo si specializza nell’imitare un solo tipo di uovo nel corso della propria vita e depone il suo uovo nel nido della specie che l’ha allevata. In questo modo il colore e le dimensioni dell’uovo sono simili a quelle della specie adottiva, che in seguito non si cura delle enormi dimensioni che il figliastro riesce a raggiungere.
Questa strategia sembra essere stata selezionata positivamente dall’evoluzione soprattutto in alcune specie per una serie di indubbi vantaggi, tra cui il più rilevante è che, senza il processo tassativo di allevare i giovani, il genitore è libero di usare l’energia risparmiata per produrre più uova. Questo comportamento solitamente lascia meravigliati i più, il pulcino e il nido sono collegati a idee di tranqullità, di sicurezza e di cure parentali. Nel caso del cuculo invece emerge in maniera netta l’indifferenza della natura e la potenza dell’evoluzione. La madre “scellerata” non si prenderà cura del figlio, “crudele e spietato”, a cui nessuno ha spiegato come fare, sa istintivamente che per sopravvivere dovrà gettare fuori dal nido le altre uova e una volta cresciuto sarà sempre l’istinto a guidarlo durante la migrazione solitaria verso l’Africa. Con l’arrivo della primavera frequentando i boschi, ma sempre più spesso anche i nostri giardini, ci sono buone probabilità di incontrare la processionaria della quercia (Thaumetopoea processionea) o del pino (Thaumetopoea pityocampa). Questo lepidottero, lungo circa 4 cm e appartenente alla famiglia Notodontidae è altamente distruttivo sia per i pini che per le quercie, in quanto le priva di parte del fogliame compromettendo seriamente il loro ciclo vitale. Inoltre nel suo stadio larvale è molto pericolosa anche per l’uomo in quanto presenta una serie di peli urticanti sul corpo che si posono separare facilmente dalla larva nel corso di un contatto o più semplicemente sotto l’azione del vento. Data la particolare struttura uncinata questi peli si attacano facilmete alla pelle o se inalati alle mucose, provocando una reazione urticante dovuta al rilascio di istamina. La reazione provocata dal contatto dei peli sulla nostra cute può essere modesta e durare pochi giorni oppure può assumere notevole gravità, arrivando anche ad uno shock anafilattico con pericolo di morte (edema in bocca e in gola, difficoltà di respirazione, ipotensione e perdita di coscienza). A seconda della zona del corpo interessata, i sintomi sono diversi; in caso di contatto con la pelle si svilupperà una dolorosa eruzione cutanea con forte prurito, in caso di contatto con gli occhi ci sarà un rapido sviluppo di congiuntivite e in caso di inalazione o ingestione si manifesteranno irritazioni alle vie respiratorie o infiamazioni delle mucose della bocca e dell’intestino. In caso di contatto è bene lavare la pelle abbondantemente con acqua e sapone, spazzolare i capelli, cambiare gli abiti (sui quali potrebbero ancora essere presenti peli urticanti) e lavarli ad almeno 60° manneggiandoli con un paio di guanti. In caso di congiuntivite gli occhi devono essere risciacquati abbondantemente per eliminare eventuali peli urticanti; chi dovesse presentare, oltre a sintomi localizzati anche dei problemi generalizzati, quali per esempio malessere, vomito o difficoltà respiratorie dovrà recarsi tempetivamente in pronto soccorso. La processionaria risulta molto pericolosa anche nei confronti dei cani, i quali annusando il terreno possono inavvertitamente venire a contatto con i peli urticanti che ricoprono il corpo dell’insetto. In caso di contatto è importante procedere con estrema velocità al lavaggio della bocca del cane e delle zone circostanti con una soluzione di acqua e bicarbonato utilizzando una siringa priva di ago e di un paio di guanti monouso in lattice, in modo da semplificare le operazioni e scongiurare un eventuale contagio. Una volta ripulita la zona interessata è necessario consultare immediatamente uno specialista. Il periodo di maggior rischio di contatto con le processionarie può variare in funzione dell’andamento meteorologico stagionale; indicativamente non dura più di un paio di settimane tra la metà di marzo e la fine di maggio periodo in cui solitamente le larve mature abbandonano il nido per trovare un luogo ideale dove formare la crisalide, da cui tra luglio e agosto uscirà una falena innoqua. Il metodo migliore per non avere problemi con quest’insetto è quello di evitare le zone infestate, facilmente riconoscibili per la presenza di nidi setosi di colore bianco, situati solitamente sulle terminazioni dei rami dei pini (Pinus nigra e Pinus Sylvestris). In ogni caso l’elevata presenza di nidi sui rami degli alberi non è sempre direttamente correlata con l’elevata presenza di larve in primavera, infatti a volte la mortalità invernale può essere molto elevata. Per quanto riguarda i cani è consigliabile prestare la massima attenzione durante le passeggiate, tenendo il cane a guinzaglio (obbligatorio per legge) e controlando i suoi movimenti per evitare che metta il muso in luoghi potenzialmente pericolosi.
Curiosità: Il nome comune di tale specie, presente in Europa meridionale e Africa settentrionale, deriva dalla caratteristica abitudine di muoversi sul terreno in fila, formando una sorta di processione. Link Utili: Il graduale ritorno del lupo (Canis lupus italicus*) non è semplicemente un’ottima notizia per la “wilderness” dei territori delle Alpi e Appennini ma è soprattutto una notizia di grande importanza dal punto di vista ecologico. Il lupo è un predatore generalista ed opportunista, le sue prede d’elezione sono gli ungulati selvatici che caccia in branco. Grazie alle sue straordinarie capacità tale specie è in grado di andare ad equilibrare le popolazioni di ungulati, predandoli attivamente, ed esercita anche un controllo indiretto su altri predatori. Le predazioni portano ad un miglioramento ambientale, ad esempio il cervo ha grosso impatto sulla foresta e i danni sono minori se la sua densità viene controllata dal lupo. Camosci e stambecchi non sono prede elettive ma il lupo è un animale opportunista e va a predare i soggetti deboli, garantendo un controllo qualitativo della specie. Interessante è anche l’impatto sul cinghiale, il lupo preda principalmente i giovani, che sull’appenino sono diventati la sua fonte trofica principale. Per quanto riguarda i rapporti con gli altri carnivori si è visto come il lupo sottragga risorse alla volpe, a volte predandola attivamente; un numero minore di volpi va a favorire l’aumento del numero di tetraonidi e di piccoli mammiferi come le marmotte. Nei prossimi anni risulterà importante capire come il lupo agisca su di un altro canide in forte espansione negli ultimi anni: lo sciacallo dorato (Canis aureus). Lo sciacallo sembra più numeroso nelle aree dove non ci sono lupi; questi ultimi, infatti, non tollerano la presenza di sciacalli nel loro territorio. La recente espansione dello sciacallo in Europa orientale e occidentale è stata attribuita al declino delle popolazioni di lupi in tempi storici e l'attuale diffusione nell'entroterra alto-adriatico sembra essere in rapida espansione proprio nelle varie aree dove i lupi sono assenti o molto rari. Come abbiamo visto molte popolazioni vengono riequilibrate dal ritorno di una singola specie; ed è proprio questa la grande rilevanza ecologica del lupo. Se questo ritorno fa felici gli amanti della natura e degli animali ci sono alcune categorie che non vedono di buon occhio tale espansione. Il lupo, se ne ha l’occasione, attacca il bestiame domestico che in assenza di forme di protezione è più facile da predare di qualsiasi animale selvatico. La predazione inoltre porta ad una serie di danni indiretti che consistono in aborti, ferite, fuga del bestiame e perdita di produzione del latte. Il conflitto tra allevatori e lupo si sta inasprendo ed è sempre maggiore dove il predatore è tornato da poco tempo e si è persa l’abitudine ad adottare sistemi di difesa per il bestiame. I metodi di prevenzione esistono (recinzioni elettrificate, cani da guardia), sono costosi e il loro utilizzo implica un aumento di lavoro e di stress, che va a gravare su di una categoria non certo ricca e rilassata. Per garantire una coesistenza tra questi animali e gli allevatori sono fondamentali delle campagne di informazione per spiegare come comportarsi e proteggersi dal predatore, a cui devono seguire dei finanziamenti per far sì che gli allevatori possano impostare un corretto sistema di prevenzione. L'Unione Europea ha riconosciuto l'importanza dell'espandersi del lupo sulle Alpi e ha finanziato il progetto Life Wolfalps nell’ambito della programmazione LIFE+ 2007-2013 “Natura e biodiversità”. Il progetto interviene in sette aree chiave e tra gli obiettivi ce né uno destinato alla trasmissione della cultura delle buone pratiche per la conservazione dei capi in alpeggio e delle informazioni relative alla conoscenza dei grandi carnivori per una convivenza stabile tra il lupo e le attività economiche tradizionali. Come abbiamo visto il lupo è un predatore opportunista e intelligente, per questi motivi non riconosce l’uomo come possibile preda, anzi lo identifica come una minaccia da cui allontanarsi il più rapidamente possibile. Nel contesto ecologico-sociale odierno con una situazione di abbondanza di prede in natura, non rientra nella sua strategia l’attaccare degli obiettivi difficili e potenzialmente pericolosi come gli esseri umani. Per millenni i carnivori sono stati nemici e competitori dei nostri progenitori e sicuramente la nostra lunga storia evolutiva non ha cancellato in noi la paura per questi animali. Poi nel corso dei secoli leggende, dicerie e favole hanno dipinto il lupo come un concentrato di malvagità, spesso accostato ai peggiori difetti umani; tutto ciò fa capire come sia stata l’ignoranza a dare al lupo un’immagine negativa che non gli appartiene e non merita. Il lupo è semplicemente un predatore con il quale dobbiamo imparare a rapportarci; nessuna confidenza, un po’di timore e molto rispetto, senza cercare di interferire nelle sue dinamiche. * Il lupo presente in Italia rivela alcune caratteristiche genetiche riconoscibili e peculiari non rinvenibili in individui di altre popolazioni. Attualmente il lupo italiano è ritenuto un ecotipo di quello europeo (Canis lupus lupus), da cui è rimasto isolato per oltre un secolo. * Leggi anche:
Link utili: In Italia da circa quarant’anni, prima nella zona appenninica poi più recentemente anche sulle Alpi, il lupo (Canis lupus italicus*) sta riconquistando la gran parte delle aree montane e collinari ormai quasi totalmente abbandonate dall’uomo. Il lupo nel corso dei secoli non ha mai avuto vita facile, considerato come una specie nociva è stato sistematicamente sterminato in Europa centrale fino alla sua totale scomparsa nei primi decenni del Novecento. Tra il Settecento e l’Ottocento il lupo ha subito una progressiva eradicazione anche nell’est Europa e sulle Alpi, raggiungendo il minimo di popolazione tra gli anni ‘30 e ‘60 del Novecento. Nel corso dei secoli la competizione con gli esseri umani ha portato ad una notevole diminuzione nell’estensione dell’areale di questo mammifero; nonostante ciò grazie alla notevole plasticità ecologica, il lupo è riuscito a sopravvivere con alcune popolazioni isolate in parti dell’Europa e anche in Italia. Purtroppo anche in Italia il lupo ha subito lo stesso trattamento, la caccia al lupo era una professione pagata e riconosciuta. La ricompensa per l’uccisione era a carico delle municipalità, “il luparo” doveva presentare al sindaco la testa dell’animale per riscuotere il premio stabilito. Tale professione, così antica che si fa risalire nella notte dei tempi, venne regolarmente esercitata fino agli inizi degli anni ‘70, quando vennero emanati una serie di interventi a protezione del lupo per garantirne la sopravvivenza. Prima dell’approvazione di tali leggi di protezione il lupo si era già estinto sulle Alpi (1920) e il suo numero sull’Appennino centrale e meridionale non superava le cento unità. La sopravvivenza di alcune popolazioni di lupi sugli Appennini fu possibile grazie al diverso modello insediativo rispetto a quello alpino. Il modello insediativo rurale nelle Alpi era prevalentemente di tipo sparso, per cui il controllo del territorio risultava più capillare rispetto a quello dell’Appennino, dove prevaleva un insediamento accorpato che favoriva la presenza di vasti spazi selvatici. Questo permise al lupo di trovare delle zone di rifugio lungo la dorsale appenninica, tra la Calabria e il crinale tosco-emiliano-romagnolo. Dalla fine degli anni ‘70 ebbe inizio una lenta ripresa della specie, dovuta sia a fattori di natura ecologica che sociale. Come precedentemente detto, nei primi anni ’70, vennero approvate una serie di leggi a livello nazionale ed internazionale che considerarono il lupo una specie non cacciabile ed a alto interesse di conservazione. Nel 1976 un Decreto Ministeriale cancellò il lupo dall’elenco delle specie nocive, vietandone la caccia e l’avvelenamento. A livello europeo con la convenzione di Berna (1979) il lupo venne inserito nell’allegato II “Specie strettamente protette”, poi nel 1992 venne inserito nell’allegato D (“Specie di interesse comunitario che richiedono una protezione rigorosa”) della direttiva Habitat 92/43/CEE. Questa espansione va anche imputata alle caratteristiche proprie di tale specie (adattamento alle diverse fonti di cibo disponibile, capacità di dispersione) e ad una serie di mutamenti economico/sociali avvenuti dopo la fine della seconda guerra mondiale. Fino agli anni '50 le Alpi erano intensamente abitate e sfruttate per il sostentamento di chi vi abitava, poi a partire dagli anni '60 iniziò un massiccio spopolamento. Il progressivo abbandono di ampie zone rurali e della maggior parte delle valli alpine durante il secondo dopoguerra portò all’abbandono di ettari di colline e montagne, che vennero rioccupate dal bosco e dagli ungulati selvatici. Attraverso la cerniera orografica dei monti liguri, gli esemplari di lupo in dispersione riuscirono a rientrare nell’area alpina, protetti dai boschi di neoformazione e non più disturbati visto la scarsa presenza dell’uomo. Un terzo fattore fondamentale per questo ritorno è stato l’istituzione di numerose aree protette che hanno favorito il mantenimento di popolazioni stabili e numerose di ungulati selvatici. Nel corso degli anni numerose sono state le operazioni di reintroduzione di ungulati (capriolo, camoscio, cervo) che hanno favorito e velocizzato il processo di espansione di tali specie. Queste reintroduzioni, assieme all’evoluzione dell’attività venatoria, con il diffondersi della caccia di selezione, hanno sancito il definitivo recupero sull’arco alpino delle popolazioni di ungulati e la loro forte crescita demografica. La presenza di ungulati risulta fondamentale in quanto il lupo è un predatore generalista e opportunista; le sue prede d’elezione sono gli ungulati selvatici, principalmente i cervi ma essendo in grado di adattare la propria dieta a seconda della disponibilità delle risorse preda anche caprioli, daini, camosci, mufloni e cinghiali. In situazioni particolari può predare anche animali di piccola taglia come le marmotte, inoltre non disdegna il bestiame domestico né le carcasse di animali morti. Bisogna sottolineare come questi siano i fattori fondamentali per il ritorno di questa specie e che a differenza di altri ritorni, come l’orso o lo stambecco, non ci siano state reintroduzioni da parte dell’uomo con il prelievo di individui da popolazioni europee. Il lupo presente sulle Alpi è arrivato spontaneamente per colonizzazione naturale dall’appennino, e pian piano si sta spingendo sempre più verso est dove in questi anni si è trovato molto bene sui monti della Lessinia. Qui nel 2013 è stata documentata la riproduzione della prima coppia formata da un lupo proveniente dalle Alpi Dinariche, “Slavc”, e da una femmina proveniente dalle Alpi Occidentali, “Giulietta”. Questo storico evento ha portato al ricongiungimento di due popolazioni diverse non più in contatto da secoli con la formazione di un branco, l’unico per ora noto in tutte le Alpi orientali. * Il lupo presente in Italia rivela alcune caratteristiche genetiche riconoscibili e peculiari non rinvenibili in individui di altre popolazioni. Attualmente il lupo italiano è ritenuto un ecotipo di quello europeo (Canis lupus lupus), da cui è rimasto isolato per oltre un secolo. * Link utili:
Con la bella stagione durante le gite fuoriporta o in mezzo al verde, può capitare di incontrare dei rettili come le lucertole, i ramarri o i temutissimi serpenti. Questi ultimi non godono di buona fama e molto prima di essere identificati come simbolo del male, i serpenti sono sempre stati oggetto di una paura atavica; nei nostri geni c’è scritto che dobbiamo scacciare questi animali, per la nostra stessa sopravvivenza. Questo però non deve e non può giustificare il puntuale massacro di rettili nella bella stagione, dovuto ad una sbagliata educazione ed alle leggende antiche che raffigurano i serpenti come creature malefiche e mortali. Per prima cosa bisogna dire che la maggior parte degli incontri con i serpenti riguarda esemplari non pericolosi appartenenti alla famiglia dei Colubridi, come il Biacco (Coluber viridiflavus), o alla famiglia dei Natricidae, come la Biscia dal Collare (Natrix natrix). Va ricordato come questi serpenti siano utilissimi all’ interno dell’ecosistema poiché la loro dieta è formata quasi esclusivamente da topi, ratti ed insetti dannosi. Le vipere sono gli unici serpenti velenosi esistenti in Italia; le quattro specie presenti sono distribuite in tutte le regioni, ad eccezione della Sardegna, dove non sono presenti serpenti velenosi. Le vipere presenti sul territorio nazionale* sono la Vipera aspis, diffusa sulle Alpi e sugli Appennini, ha un’indole mite e solitamente fugge se molestata; la Vipera berus (Marasso palustre) diffusa sulle Alpi anche oltre i 2200 metri, è piuttosto aggressiva; la Vipera Ammodytes (vipera dal corno) presente soprattutto nel nord-est Italia e la Vipera Ursinii presente nell’Appennino Abruzzese ed Umbro-Marchigiano. Le vipere sono animali eterotermi, la loro temperatura corporea è legata a quella dell’ambiente e superano l’inverno grazie ad una fase di latenza che termina verso marzo quando i maschi vagano alla ricerca di una compagna. In questo periodo, essi sono meno accorti ed è più facile incontrarli. La riproduzione della specie è ovovipara, sviluppano l’uovo fecondato direttamente nel corpo della femmina e al momento della deposizione la membrana ovarica si rompe e i piccoli vengono alla luce perfettamente formati. L’areale delle vipere è costituito da prati, zone collinari, e boschi estendendosi fino al limite delle praterie, in quota è facile trovarla su pietraie, cumuli di pietre o mucchi d’erba. Come tutti gli esseri viventi necessita di bere una certa quantità d’acqua per cui difficilmente la troveremo in zone troppo aride; solitamente la ritroviamo vicino a ruscelli, pozze d’acqua o incavi della roccia dove si possono accumulare una piccola quantità d’acqua. In Friuli Venezia Giulia sono presenti tre delle quattro specie* di vipera che vivono in Italia. La vipera comune (V. aspis) presente dall’alta pianura fino alla costa dell’adriatico; il Marasso palustre (V. berus) presente sulle Alpi friulane anche oltre i 2000 metri e la vipera dal corno (V. ammodytes) presente sulle Alpi e Prealpi fino a 1700 metri. La vipera dal corno è la più pericolosa vipera italiana per l’uomo a causa della quantità di veleno posseduta (10 – 35 mg) e che può essere inoculata con un morso. Deve il suo nome comune ad un’appendice carnosa posta sulla punta del muso, può raggiungere i 90 cm di lunghezza ed eccezionalmente superare il metro. La sua colorazione può variare dal marrone al grigio con un disegno di colore più scuro lungo il dorso somigliante ad una serie di rombi uniti o ad una linea a zig zag. Senza dover ricordare le caratteristiche morfologiche di ciascuna specie, esistono dei segni caratteristici che permettono di distinguere le vipere dai Colubridi (non velenosi). La prima caratteristica riguarda la testa che nei viperidi assume una forma quasi triangolare e si distingue nettamente dal corpo; la seconda caratteristica riguarda l’occhio che nella vipera presenta la pupilla in posizione verticale (simile al gatto) mentre nei Colubridi è rotonda. Queste sono caratteristiche difficili da cogliere se il serpente viene visto di sfuggita, la caratteristica più facile da individuare è la forma del corpo. La vipera è piuttosto tozza e la coda, pur terminando a punta, è breve; ci sono pochi centimetri fra la parte del corpo col massimo diametro e la punta della coda. I Colubridi hanno, al contrario, una forma più allungata ed affusolata con una diminuzione del diametro del corpo dalla testa verso la coda molto più graduale e ben visibile. Gli incontri troppo ravvicinati con le vipere si verificano molto raramente a meno che non si vada in cerca di guai per sbadataggine, distrazione o curiosità. Durante un’escursione è bene seguire alcune regole di prevenzione come camminare al centro del sentiero, indossare calzature alte, camminare con passo cadenzato e pesante battendo le erbe e le pietre con un bastone, non raccogliere istintivamente ogni cosa da terra, ispezionare attentamente il luogo in cui ci si desidera sedere, non mettere le mani sotto rocce, sassi o dentro le fessure del terreno e prestare attenzione quando ci si disseta ad una fonte o quando si cammina su una pietraia. Nella malaugurata ipotesi che veniate morsi da un serpente in primo luogo bisogna riconoscere il tipo di serpente autore del morso; se per vari motivi non è stato possibile vedere il serpente bisogna osservare il punto del morso. Se osservate due evidenti puntini rossi ad una distanza di 0,5 – 1 centimetro l’uno dall’altro il morso è di vipera, in mancanza dei due puntini e con la presenza di una fila di piccoli puntini della stessa dimensione il morso è di colubro. Bisogna prestare attenzione anche se nel morso si osserva la presenza di un solo punto più grande degli altri; è possibile che la vipera abbia perso uno dei due denti veleniferi. I sintomi caratteristici di un morso di vipera sono arrossamento, gonfiore, dolore, formicolio e cianosi che nei primissimi minuti sono localizzati nella zona circostante il morso, ma che rapidamente si espandono verso la periferia. Nell’arco di un’ora iniziano a comparire anche gli effetti sistemici, rappresentati da nausea, vomito, dolori muscolari, diarrea, collasso cardiocircolatorio e shock con perdita di coscienza. In caso di morso è fondamentale mantenere la calma, il soggetto colpito deve essere rassicurato, tranquillizzato e mosso il meno possibile in quanto l’attività muscolare favorisce la diffusione del veleno. La sede del morso va disinfettata con sostanze prive di alcool, se possibile si può effettuare un bendaggio a monte della ferita per fermare la circolazione linfatica che veicola il veleno subito dopo il morso. Assolutamente da evitare la rimozione del veleno con incisione, spremitura o suzione; si può usare la siringa apposita che si compra in farmacia. All’infortunato si possono somministrare bevande eccitanti come té o caffè (caffeina) che aiutano ad evitare un pericoloso calo pressorio, non devono essere somministrate bevande alcooliche in quanto l’alcool è un vasodilatatore. In fine il siero antiveleno non va né procurato né portato al seguito nello zaino, questo è una risorsa ospedaliera che va conservata a temperature basse e può provocare una reazione allergica più grave del morso stesso. Il forte impatto emotivo che causa l’incontro di un serpente porta spesso le persone all’uccisione di questi rettili creando un grosso danno all’ecosistema. I pericoli e le eventuali conseguenze dopo un morso esistono e non vanno sottovalutate. In ogni caso è bene sapere che il numero di casi di morso di vipera è assai basso, non sempre al morso di vipera corrisponde l’inoculazione del veleno (il 30% sono morsi secchi), che gli esiti dell’avvelenamento sono legati all’età e allo stato di salute della persona colpita e che l’avvelenamento raramente ha esiti mortali. **Da poco più di un mese è stata scoperta una nuova specie di vipera chiamata Vipera walser. La specie appena scoperta popola le valli vicino Biella, nel Piemonte orientale, e non è molto diversa dal Marasso Palustre (Vipera berus). Test genetici hanno dimostrato che dal punto di vista della parentela il Marasso e la Vipera dei Walser sono più lontani di quello che si pensava, tanto lontani da permettere di considerarle due specie distinte.**
Con la bella stagione le possibilità di effettuare escursioni aumentano, passiamo più tempo all’aperto e può capitare di attraversare prati non sfalciati o boschetti rigogliosi. Questi sono i luoghi preferiti dalla zecca, un fastidioso parassita che può attaccare anche l’uomo.
Le zecche (Artropodi) contrariamente ad un pensiero comune non sono degli Insetti, bensì sono Acari appartenenti alla classe degli Aracnidi. Questi parassiti ematofagi principalmente si distinguono in tre famiglie: le Ixodidae o "Zecche dure", le Argasidae o "Zecche molli" e le Nuttalliellidae (presenti solo in Africa). Le zecche dure sono così chiamate perché hanno un caratteristico scudo dorsale chitinoso mentre le zecche molli sono sprovviste di tale scudo. Il ciclo biologico delle zecche è caratterizzato da tre stadi di sviluppo (larva, ninfa e adulto), la metamorfosi da uno stadio al successivo richiede sempre un pasto di sangue ma possono resistere per lunghi periodi di tempo a digiuno assoluto. Il pasto di sangue, durante il quale la zecca rimane costantemente attaccata all’ospite, si compie nell’arco di ore per le zecche molli, di giorni o settimane per le zecche dure.
Le zecche pericolose per l’uomo se infette, sono quelle appartenenti alla famiglia Ixodidae; queste sono in grado di trasmettere all’uomo numerose e differenti patologie come: la borreliosi di Lyme, l’ehrlichiosi, le febbri bottonose da rickettsiae e l’encefalite virale (TBE). Gli Argasidi (Zecche molli) sono vettori di patologie meno rilevanti dal punto di vista epidemiologico come febbri ricorrenti da zecche e febbre Q. La maggior parte di queste malattie può essere diagnosticata esclusivamente sul piano clinico, ma una pronta terapia antibiotica, nelle fasi iniziali, è generalmente risolutiva. Solo raramente e in soggetti anziani o bambini queste infezioni possono essere pericolose per la vita.
Un discorso particolare va fatto per la Meningoencefalite da zecche (TBE), una malattia virale acuta del sistema nervoso centrale, che rappresenta la malattia più pericolosa che le zecche sono in grado di trasmettere sul territorio nazionale. Poiché non esiste una cura per tale malattia il miglior modo per prevenirla è la vaccinazione tramite tre dosi nel primo anno e un richiamo dopo tre. I casi di encefalite da zecca negli ultimi 30 anni sono aumentati in modo esponenziale e i paesi più colpiti da questo incremento sono l'Austria, la Germania e la Svizzera. Nel nostro paese le regioni maggiormente a rischio sono il Friuli Venezia Giulia, il Veneto ed il Trentino Alto Adige.
L’aumento delle zecche infette è una diretta conseguenza dell’aumento esponenziale del numero di questi parassiti. Le cause di questo aumento sono diverse e in parte concatenate tra loro. In primis il cambiamento climatico ha portato a inverni meno rigidi in cui i giorni di gelo sono sempre più rari, questo permette ad un numero maggiore di zecche di superare l’inverno grazie ad una forma di letargo. Negli ultimi anni le montagne e i pascoli sono stati progressivamente abbandonati dall’uomo causando un avanzamento inesorabile del bosco che si è riappropriato dei prati ormai abbandonati. Questo ha causato un aumento delle zone favorevoli (habitat) alla vita delle zecche, le quali attendono il passaggio di un eventuale ospite e vi si insediano conficcando il loro rostro (apparato boccale) nella cute e cominciando a succhiarne il sangue. I principali vettori delle zecche sono gli ungulati, soprattutto i caprioli; specie in continua espansione demografica negli ultimi anni.
Per difendersi dalle zecche la cosa migliore è la prevenzione, esistono alcune precauzioni per ridurre significativamente la possibilità di venire a contatto con le zecche, o perlomeno per individuarle rapidamente, prima che possano trasmettere una malattia. Coloro che si apprestano a recarsi in aree a rischio dovrebbero vestirsi opportunamente, con abiti chiari che rendono più facile l’individuazione delle zecche, coprire le estremità, soprattutto inferiori, con calze chiare e utilizzare pantaloni lunghi. Sul mercato esistono diversi repellenti per zecche che possono essere utilizzati sui vestiti o sulla pelle. Questi vanno rimessi ogni due ore circa poiché perdono di efficacia con il tempo. Durante un'escursione è bene non attraversare zone in cui l’erba è alta, non addentrarsi nei boschi al di fuori dei sentieri ed evitare di sedersi o distendersi nei prati. Terminata l’escursione, effettuate un attento esame visivo e tattile della propria pelle, dei propri indumenti per individuare le zecche eventualmente presenti. Le zecche tendono a localizzarsi preferibilmente sulla testa, sul collo, dietro le ginocchia, sui fianchi. Se individuate sulla pelle, le zecche vanno prontamente rimosse perché la probabilità di contrarre un’infezione è direttamente proporzionale alla durata della permanenza del parassita sull'ospite; bisogna comunque tenere presente che solo una percentuale di individui è portatore di infezione.
Se al termine di un’escursione trovate una zecca attaccata al vostro corpo non dovete farvi prendere dal panico, in farmacia esistono delle pinzette apposite per la rimozione. La zecca deve essere afferrata con la pinzetta il più possibile vicino alla superficie della pelle e rimossa tirando dolcemente. Durante la rimozione bisogna prestare la massima attenzione a non schiacciare il corpo della zecca, per evitare il rigurgito che aumenterebbe la possibilità di trasmissione di agenti patogeni. Disinfettare la cute dopo la rimozione della zecca con un disinfettante non colorato.
Se non vi sentite sicuri ad effettuare questa operazione da soli potete recarvi dal vostro medico di base il quale rimuoverà la zecca e provvederà a disinfettare la zona del morso. Alla rimozione della zecca dovrebbe seguire un periodo di osservazione della durata di 30-40 giorni per individuare la comparsa di eventuali segni e sintomi di infezione. Se dovesse comparire un alone rossastro che tende ad allargarsi oppure febbre, mal di testa, debolezza, dolori alle articolazioni, ingrossamento dei linfonodi, è importante rivolgersi al proprio medico curante. Purtroppo il numero di zecche è in continuo aumento ma questo non deve destare troppa preoccupazione, con le dovute attenzioni e seguendo adeguate regole di prevenzione si può continuare ad effettuare gite ed escursioni sulle nostre splendide montagne. Questo argomento l’ho trattato anche in un video che potete trovare al link qui sotto:
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Marzo 2022
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