Sia sulle Alpi che in Appennino sono numerosi i rifugi gestiti in cui è possibile passare la notte in splendidi luoghi con quasi tutti i comfort di un albergo. In montagna però esistono anche delle strutture non gestite e sempre aperte che possono essere utilizzate dagli escursionisti come ricovero per la notte o in caso di emergenza. Queste strutture non presentano particolari servizi (no corrente elettrica, no acqua, no riscaldamento) e possono essere raggruppate in due categorie: bivacchi e casere.
I bivacchi sono delle strutture incustodite, solitamente prefabbricate in lamiera o legno e dalle dimensioni ridotte. Al loro interno trovano posto alcune brande (da 4 a 10) con coperte, un tavolo con sgabelli e in alcuni casi qualche genere di prima necessità lasciato in caso di emergenza. I bivacchi vengono posti in luoghi isolati, su itinerari alpinistici o traversate e servono da punto di appoggio o da riparo in caso di brutto tempo.
Le casere invece sono strutture in muratura, stavoli o vecchie malghe, ristrutturate e rese disponibili per gli escursionisti. Questi edifici possono avere più stanze, in alcuni casi sono presenti letti con materassi e coperte, oppure c'è un tavolato adibito a zona notte. E' sempre presente una stufa o un caminetto, un tavolo con sedie e una serie suppellettili inserite in un armadio. Molto spesso all'esterno, o nei casi migliori anche all'interno, è presente una fontana con acqua potabile. Bivacchi e casere non possono essere prenotati o occupati, sono a disposizione di tutti e vige la regola del "chi prima arriva meglio alloggia"; in caso di esaurimento dei posti letto l'ultimo arrivato dormirà sul pavimento e nessuno avrà il diritto di cacciarlo. La cura e manutenzione di tali strutture viene fatta dal CAI o da altri enti (es: Alpini, Pro Loco) che su base volontaria si prendono cura dell'edificio per garantirne la fruibilità.
L'uso di tali strutture è gratuito e lasciato al buon senso di chi le utilizza; rimetti tutto in ordine, porta a casa i rifiuti, lascia qualche genere alimentare a lunga conservazione o un'offerta se è presente la casettina. Se utilizzi la stufa o il camino è buona abitudine utilizzare meno legna possibile e rimpiazzare sempre quella consumata lasciando una piccola catasta da usare in caso di emergenza.
Per trascorrere la notte in una di queste strutture ti consiglio di portare il sacco a pelo e un cuscino gonfiabile, i materassi non sempre sono presenti quindi a volte anche un materassino non guasta. Al calar del sole una torcia frontale e alcune candele torneranno utili per far luce, inoltre un fornellino a gas e qualche stoviglia ti permetteranno di preparare un pasto caldo. Se sei interessato in questa esperienza ti dovrai armare di spirito di condivisione e adattamento; spesso capita di dover dividere la casera o il bivacco con altre persone, soprattutto nei fine settimana e nel periodo estivo. L'ultimo consiglio che voglio darti (quello più prezioso) è di avere con te sempre un paio di tappi per le orecchie; che sia uno sconosciuto o un tuo amico il russatore seriale è sempre in agguato!
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Il cervo (Cervus elaphus), animale elegante e maestoso, è probabilmente il più imponente rappresentante della fauna selvatica italiana. Agli inizi del '800 a seguito della distruzione degli habitat idonei e della caccia sfrenata, la specie era scomparsa dalla gran parte del territorio italiano, salvo che nel Bosco della Mesola (Ferrara) ed in alcune limitate zone dell’Alto Adige. A partire dal XX secolo, gradualmente, la specie ha ricolonizzato le foreste Alpine e Appenniniche, sia grazie alla diffusione spontanea di esemplari dalla Svizzera, Slovenia e Austria sia grazie ad una serie di reintroduzioni operate dall'uomo. Ad oggi la distribuzione della specie in Italia interessa quasi uniformemente tutto l’arco Alpino; lungo l’Appennino invece la sua presenza è più discontinua e localizzata, con i nuclei più importanti insediati nell'Appennino Tosco-Emiliano e Tosco-Romagnolo, nel Parco Nazionale d’Abruzzo e nel Parco Nazionale del Pollino. Durante l'anno i maschi e le femmine solitamente vivono separati in piccoli gruppi monosessuali mantenendo un comportamento schivo e diffidente. Da metà settembre però inizia la stagione degli amori; in questo periodo, i maschi si separano ed iniziano a sfidarsi tramite bramiti per rivendicare il possesso delle femmine su altri pretendenti. Il bramito non è altro che un "urlo" eseguito dai maschi adulti che si sfidano per capire chi sia l'esemplare dominante in una determinata zona. La forza del bramito infatti dipende dalle dimensioni dell'animale e dalle sue condizioni fisiche; in caso di parità vocale i maschi si affronteranno in campo aperto, ma giungeranno ad uno scontro fisico solo dopo aver compiuto una parata fronte a fronte per osservare le dimensioni del palco e la robustezza dell'avversario. Quindi durante questo periodo, indicativamente da metà settembre a metà ottobre, il cervo raduna intorno a sé da 5 a 15 femmine, che custodisce gelosamente dai rivali a suon di bramiti ed eventualmente di scontri fisici.
La stagione degli amori è sicuramente il periodo migliore per ammirare questi maestosi mammiferi; i maschi sono molto meno cauti del solito e dove c'è un maschio sono presenti anche alcune femmine. I momenti migliori della giornata sono le ore crepuscolari, quando la loro attività è massima e sono concentrati nell'emettere potenti bramiti; ricorda che ascoltando attentamente potrai capire dove e quanti esemplari sono presenti in una determinata zona. Da metà ottobre in poi la stagione degli amori si esaurisce gradualmente e i maschi riprendono la loro vita normale frequentando zone a bassa quota dove si possono anche riunire in branchi. Le femmine allo stesso modo si riuniscono in branchi con anche la presenza dei maschi giovani e si muovono alla ricerca di luoghi sicuri dove trascorrere l'inverno. Se vuoi provare questa esperienza ma non sai dove andare prova ad informarti presso gli enti parco o le riserve naturali, spesso in autunno vengono organizzate escursioni finalizzate all'osservazione dei cervi nel periodo amoroso.
La Rete Radio Montana è un progetto nazionale su base volontaria che mira ad incrementare la sicurezza in montagna per mezzo delle comunicazioni radio. Il progetto, nato nel 2008, ha lo scopo di connettere via radio gli escursionisti, in modo che ci sia uno scambio continuo di informazioni utili per aumentare la sicurezza soprattutto laddove le reti cellulari non sono disponibili.
Il tutto si basa sull’utilizzo di un canale radio unico e libero per l’intero territorio nazionale, denominato CANALE 8-16 (CH8 CTSS 16) che può essere intercettato tramite ricetrasmittenti PMR – 446; apparecchi che possono essere acquistati e utilizzati liberamente previo l’invio di una DIA all’Ispettorato Territoriale della Regione e il pagamento di un contributo annuo di 12€. Il CANALE 8-16 può essere utilizzato da chiunque per comunicare agli utenti in ascolto la propria posizione e tutta una serie di informazioni operative utili alla nostra sicurezza e a quella degli altri escursionisti. In caso di difficoltà o peggio di emergenza, soprattutto se il telefono cellulare non ha segnale GSM, è possibile provare a chiedere aiuto ad altri utenti della RRM in ascolto, che potranno allertare telefonicamente il Soccorso Alpino per nostro conto. Una volta allertati i soccorsi può essere utile dichiarare di essere utenti RRM in quanto alcuni organi di soccorso stanno aderendo al progetto e in caso di emergenza effettueranno chiamate sul CANALE 8-16 sperando che il malcapitato sia in ascolto radio, ai fini di velocizzare i tempi di intervento. Oltre al fatto di poter chiedere aiuto in caso di emergenza la RRM può essere utilizzata, in maniera accorta, per l’interscambio di informazioni operative tra escursionisti, come ad esempio le condizioni meteo in quota, la presenza di neve o ghiaccio e le condizioni dei sentieri o delle vie ferrate. Inoltre con una semplice iscrizione al portale internet della Rete Radio Montana è possibile richiedere un ID personale che permette di accedere al portale RERAMONET. Qui è possibile compilare un “modulo escursione” dove si potrà indicare la meta e il tipo di attività in modo da far sapere agli altri utenti di essere presenti in una determinata zona per un determinato periodo.
Come detto in precedenza il CANALE 8 – 16 è libero e può essere utilizzato da chiunque; tuttavia per iscriversi e partecipare alla RRM con un ID personale vengono richieste due condizioni: il frequentare la montagna o i boschi italiani sia per lavoro che per svago in modo assiduo e ovviamente il possesso di una radio PMR446.
Infine è bene ricordare che la RRM non è un’alternativa alle classiche modalità di allertamento degli organi preposti al soccorso in montagna, bensì è un “di più” per la prevenzione degli incidenti in montagna o in zone boschive, ed eventualmente potrebbe dimostrarsi un supporto utile in caso di emergenza nelle fasi di ricerca e soccorso, per avere un collegamento diretto tra l’infortunato e i soccorritori precedentemente allertati. In Italia, come spiego in questo articolo, l’organo di riferimento esclusivo per il soccorso in territorio montano ed in ambiente ipogeo è il Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico (CNSAS) e la procedura ufficiale per la richiesta di soccorso prevede la chiamata telefonica al 118 o al 112 nelle zone in cui è già attivo il Numero Unico per le Emergenze. Dall’inizio del 2014 è possibile utilizzare anche GeoResQ, un servizio ufficiale di geolocalizzazione e inoltro delle richieste di soccorso gestito dal CNSAS che si avvale di un’app per smartphone, scaricabile gratuitamente per gli iscritti CAI. Questo è in breve il Progetto Rete Radio Montana, ovviamente maggiore è il numero di escursionisti muniti di radio e maggiore sarà la copertura fornita; per cui se l’articolo ti è piaciuto ti invito a visitare il sito della RRM, dove troverai tutte le informazioni dettagliate sul progetto. Link utili Leggi anche:
Il Cuculo (Cuculus canorus), per gli amici Cucù, è un uccello migratore che trascorre l'inverno nelle foreste tropicali dell'Africa per poi migrare in Europa durante la bella stagione. Nei nostri boschi il suo inconfondibile canto si può ascoltare improvvisamente tra la fine di marzo e l'inizio di aprile, tanto che viene considerato da molti il premonitore dell'arrivo della primavera. Legato a questo, qui in Friuli, esiste un proverbio popolare che recita così: “quant ch’al cjante il cuc, une di ploe une di sut” che può essere paragonato all'italiano “Marzo pazzerello, guarda il sole e prendi l’ombrello”. Il Cuculo ha le dimensioni di una colomba, il dorso è di colore grigio cenere mentre il ventre è bianco striato di nero. Il suo comportamento è schivo, percorre il lungo viaggio di migrazione in solitaria e una volta giunto a destinazione ama il fitto della macchia, proprio per queste ragioni risulta poco conosciuto alla vista, mentre è molto amato per il suo canto. La sua natura schiva e il suo canto inconfondibile hanno particolarmente stimolato l’immaginario collettivo, in molte culture attorno a questo volatile sono nate credenze e fantasie, spesso legate ad auspici di prosperità e fortuna. Il Cuculo però è noto ai più per la sua peculiare caratteristica del parassitismo di cova; una forma particolare di parassitismo che si verifica quando una femmina depone le sue uova nel nido di una coppia di uccelli della stessa specie o di una specie differente. Il Cuculo quindi è a tutti gli effetti un uccello parassita che non costruisce il suo nido ma utilizza quello di altri volatili, soprattutto passeriformi. La femmina di Cuculo una volta individuato il nido dei malcapitati (e inconsapevoli) genitori adottivi aspetta che questi depongano le uova e alla prima occasione si introduce nel nido. A questo punto elimina una delle uova presenti, depone il suo uovo e vola via. L’uovo del Cuculo si schiude in un tempo nettamente inferiore rispetto a quelli del passeriforme (circa 12 giorni grazie alla incubazione interna dell’uovo) e appena il pulcino viene alla luce, seguendo un istinto insito nei suoi geni, si sbarazza delle altre uova presenti nel nido non ancora schiuse. I genitori adottivi vengono ingannati da questo comportamento e nutrono il cuculo come se fosse un proprio nidiaceo per 2-3 settimane fino all’involo. I genitori adottivi ovviamente non si accorgono dell’inganno, ogni femmina di Cuculo si specializza nell’imitare un solo tipo di uovo nel corso della propria vita e depone il suo uovo nel nido della specie che l’ha allevata. In questo modo il colore e le dimensioni dell’uovo sono simili a quelle della specie adottiva, che in seguito non si cura delle enormi dimensioni che il figliastro riesce a raggiungere.
Questa strategia sembra essere stata selezionata positivamente dall’evoluzione soprattutto in alcune specie per una serie di indubbi vantaggi, tra cui il più rilevante è che, senza il processo tassativo di allevare i giovani, il genitore è libero di usare l’energia risparmiata per produrre più uova. Questo comportamento solitamente lascia meravigliati i più, il pulcino e il nido sono collegati a idee di tranqullità, di sicurezza e di cure parentali. Nel caso del cuculo invece emerge in maniera netta l’indifferenza della natura e la potenza dell’evoluzione. La madre “scellerata” non si prenderà cura del figlio, “crudele e spietato”, a cui nessuno ha spiegato come fare, sa istintivamente che per sopravvivere dovrà gettare fuori dal nido le altre uova e una volta cresciuto sarà sempre l’istinto a guidarlo durante la migrazione solitaria verso l’Africa. I boschi esistono da sempre e fin dagli albori della sua storia l'uomo ne ha fatto uso per soddisfare i propri bisogni. Soprattutto a partire dal XIX secolo ci fu una fase di sfruttamento intensivo e spesso eccessivo dei boschi italiani da cui veniva ricavato il legname utilizzato nelle aziende in pieno sviluppo industriale e per la costruzione di nuove linee ferroviarie. Il risultato di tale sfruttamento fu la riduzione della superficie forestale sul territorio nazionale tanto che negli anni Trenta si stimava vi fossero circa 4 milioni di ettari di bosco (Agnoletti M., The Italian Historical Rural Landscape) contro gli 11 di oggi. Per far fronte a questa situazione nel secondo dopoguerra furono promulgate le prime leggi volte alla protezione del patrimonio boschivo e parallelamente iniziarono i primi rimboschimenti. Inoltre attorno agli anni ’60 le mutate condizioni economiche diedero il via ad un massiccio spopolamento delle montagne e delle zone rurali marginali; tale processo, in maniera indiretta, ha trasformato il paesaggio di queste zone verso assetti più “naturali” grazie alla riconquista da parte del bosco dei terreni una volta gestiti dal uomo. In Italia, il rimboschimento spontaneo interessa maggiormente i terreni montani e collinari utilizzati in precedenza come coltivi, pascoli e prati. Le cause dell’abbandono dei terreni agricoli e dei pascoli sono da ricercare nei cambiamenti socio-economici, avvenuti in modo determinante in Italia a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso. I nuovi modelli sociali e culturali, uniti alla continua perdita di infrastrutture e servizi basilari per le comunità, hanno causato un lento ed inesorabile abbandono delle zone montane. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una progressiva migrazione della popolazione dai monti alla pianura che ha causato l’abbandono delle attività agricole tradizionali, quali la pastorizia e le pratiche seminative. Negli ultimi decenni i dettami dell'economia hanno portato grosse modificazioni all'agricoltura e in modo particolare all'alpicoltura con il conseguente abbandono dei terreni un tempo adibiti a tali pratiche. I pascoli e i prati da sfalcio, frutto di una convivenza secolare tra uomo e natura, vengono ormai lasciati a libera evoluzione. La vegetazione soggetta a coltura, una volta abbandonata, tende a espandersi e a riprendere possesso delle aree che occupava in precedenza, così si assiste ad un avanzamento delle specie arboree e arbustive sui territori che fino a pochi decenni fa erano dominio dell'uomo. In alcuni casi però le trasformazioni del paesaggio sono causate anche dai cambiamenti climatici, soprattutto dal riscaldamento della Terra cui si attribuisce parte della responsabilità dell’innalzamento del limite superiore del bosco. I dati sulla situazione boschiva italiana possono essere reperiti dalla terza edizione del rapporto INFC, cioè l’Inventario Nazionale delle Foreste e dei Serbatoi Forestali di Carbonio (INFC 2015), che segue l'edizione del 2005 (INFC 2005) e il primo vecchio censimento del '85 (INFC 1985). Secondo il censimento 2015 ad oggi la superficie forestale complessiva, che comprende anche arbusteti, boscaglia e formazioni rade, è pari a 10,9 milioni di ettari, con una crescita annua del 0,6%. Nel decennio 2005 - 2015 la superficie forestale è aumentata di 600.000 ettari passando da 10.345.282 ettari del 2005 a 10.982.013 ettari odierni, coperti da circa 20 miliardi di alberi. In prima battuta questi dati potrebbero trarre in inganno e far pensare che il forte aumento della superficie boscata nelle aree montane e collinari costituisca un processo esclusivamente positivo. In realtà assieme ad alcuni aspetti positivi, come il ritorno dei grandi carnivori che trovano nuovi corridoi ecologici per muoversi, l’aumento del numero di ungulati e la capacità di assorbire nuove quantità di carbonio, esistono una serie di elementi negativi legati al proliferare dei boschi. lo sviluppo incontrollato di nuove aree boscate causa una perdita di ecosistemi e di habitat specifici, fondamentali per la vita di alcune specie, come ad esempio il Re di Quaglie (Crex crex) piccolo uccello legato alla presenza di prati falciati. Un altro aspetto negativo riguarda la diminuzione di bio-diversità con la perdita di quelle associazioni erbacee ed arbustive più basse e aperte, spesso ricche di specie endemiche e piante da fiore geofite. Oltre agli aspetti ecologici ci sono delle ricadute negative anche per gli aspetti sociali; i nuovi boschi portano ad una perdita di terreni produttivi che spesso sono la base per prodotti alimentari di alta qualità, inoltre causano la perdita dei tipici paesaggi alpini o collinari, caratterizzati da pascoli alternati a boschetti messi in comunicazione da mulattiere o sentieri. Sempre più di frequente i paesi nei fondovalle sono lambiti o inglobati dal bosco e viene a mancare quella fascia prativa di sicurezza contro gli incendi o contro pericolosi parassiti come le zecche. Dal punto di vista della fissazione del carbonio quest'aumento incontrollato effettivamente porta ad una maggior quota di carbonio fissato (1.24 miliardi di tonnellate di carbonio organico, IFNC 2005) aiutando l'Italia ad avvicinarsi agli obiettivi imposti dalle politiche climatiche internazionali. Risulta però errata la credenza che tali boschi possano contrastare la deforestazione nelle zone equatoriali (i veri polmoni della terra) dove i tassi di fissazione del carbonio e di deforestazione sono di gran lunga superiori rispetto al rimboschimento nostrano.
In conclusione è fondamentale sottolineare come questa espansione sia dovuta solo in parte ad interventi di rimboschimento mirati (1700 ettari/anno, INFC); in realtà tale processo è causato principalmente dal progressivo abbandono delle zone rurali e delle attività agro-pastorali nei territori marginali. L’aumento incontrollato delle superfici boscate non porta solo aspetti positivi ma causa anche una serie di problematiche non indifferenti. Gestire un bosco significa attuare una serie di processi normativi e operativi; cure colturali che permettano di garantire un corretto sviluppo delle superfici boscate, un'oculata raccolta del legno morto che garantisca un'alta biodiversità all'ecosistema e solo come ultimo passo il taglio di parte del soprassuolo forestale. L'uomo deve impegnarsi a riprendere la gestione del patrimonio boschivo per poterci non solo convivere ogni giorno, ma anche e soprattutto produrre quei beni e servizi che altrimenti la natura da sola non ci fornirà mai. Leggi anche: Con l’arrivo della primavera frequentando i boschi, ma sempre più spesso anche i nostri giardini, ci sono buone probabilità di incontrare la processionaria della quercia (Thaumetopoea processionea) o del pino (Thaumetopoea pityocampa). Questo lepidottero, lungo circa 4 cm e appartenente alla famiglia Notodontidae è altamente distruttivo sia per i pini che per le quercie, in quanto le priva di parte del fogliame compromettendo seriamente il loro ciclo vitale. Inoltre nel suo stadio larvale è molto pericolosa anche per l’uomo in quanto presenta una serie di peli urticanti sul corpo che si posono separare facilmente dalla larva nel corso di un contatto o più semplicemente sotto l’azione del vento. Data la particolare struttura uncinata questi peli si attacano facilmete alla pelle o se inalati alle mucose, provocando una reazione urticante dovuta al rilascio di istamina. La reazione provocata dal contatto dei peli sulla nostra cute può essere modesta e durare pochi giorni oppure può assumere notevole gravità, arrivando anche ad uno shock anafilattico con pericolo di morte (edema in bocca e in gola, difficoltà di respirazione, ipotensione e perdita di coscienza). A seconda della zona del corpo interessata, i sintomi sono diversi; in caso di contatto con la pelle si svilupperà una dolorosa eruzione cutanea con forte prurito, in caso di contatto con gli occhi ci sarà un rapido sviluppo di congiuntivite e in caso di inalazione o ingestione si manifesteranno irritazioni alle vie respiratorie o infiamazioni delle mucose della bocca e dell’intestino. In caso di contatto è bene lavare la pelle abbondantemente con acqua e sapone, spazzolare i capelli, cambiare gli abiti (sui quali potrebbero ancora essere presenti peli urticanti) e lavarli ad almeno 60° manneggiandoli con un paio di guanti. In caso di congiuntivite gli occhi devono essere risciacquati abbondantemente per eliminare eventuali peli urticanti; chi dovesse presentare, oltre a sintomi localizzati anche dei problemi generalizzati, quali per esempio malessere, vomito o difficoltà respiratorie dovrà recarsi tempetivamente in pronto soccorso. La processionaria risulta molto pericolosa anche nei confronti dei cani, i quali annusando il terreno possono inavvertitamente venire a contatto con i peli urticanti che ricoprono il corpo dell’insetto. In caso di contatto è importante procedere con estrema velocità al lavaggio della bocca del cane e delle zone circostanti con una soluzione di acqua e bicarbonato utilizzando una siringa priva di ago e di un paio di guanti monouso in lattice, in modo da semplificare le operazioni e scongiurare un eventuale contagio. Una volta ripulita la zona interessata è necessario consultare immediatamente uno specialista. Il periodo di maggior rischio di contatto con le processionarie può variare in funzione dell’andamento meteorologico stagionale; indicativamente non dura più di un paio di settimane tra la metà di marzo e la fine di maggio periodo in cui solitamente le larve mature abbandonano il nido per trovare un luogo ideale dove formare la crisalide, da cui tra luglio e agosto uscirà una falena innoqua. Il metodo migliore per non avere problemi con quest’insetto è quello di evitare le zone infestate, facilmente riconoscibili per la presenza di nidi setosi di colore bianco, situati solitamente sulle terminazioni dei rami dei pini (Pinus nigra e Pinus Sylvestris). In ogni caso l’elevata presenza di nidi sui rami degli alberi non è sempre direttamente correlata con l’elevata presenza di larve in primavera, infatti a volte la mortalità invernale può essere molto elevata. Per quanto riguarda i cani è consigliabile prestare la massima attenzione durante le passeggiate, tenendo il cane a guinzaglio (obbligatorio per legge) e controlando i suoi movimenti per evitare che metta il muso in luoghi potenzialmente pericolosi.
Curiosità: Il nome comune di tale specie, presente in Europa meridionale e Africa settentrionale, deriva dalla caratteristica abitudine di muoversi sul terreno in fila, formando una sorta di processione. Link Utili:
Spesso, soprattutto a seguito di incidenti in montagna o calamità naturali sentiamo parlare di soccorso in montagna o di soccorritori appartenenti al Soccorso Alpino. Con il termine generale di soccorso alpino si indica quell'insieme di operazioni messe in atto per portare soccorso alle vittime di incidenti o di malanni in montagna o, più generalmente, in luoghi impervi dove i normali soccorsi non possono arrivare. Il soccorso alpino per cui svolge operazioni di ricerca, salvataggio e primo soccorso di dispersi, feriti o ammalati in ambiente montano e ipogeo, dove sono richieste particolari conoscenze e capacità.
In Italia il soccorso alpino viene svolto dagli uomini del Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico (C.N.S.A.S.) in collaborazione con le squadre del Soccorso Alpino della Guardia di Finanza (SAGF), degli specialisti SAF del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco e dall'unità Search And Rescue Alpini dell'Esercito italiano. Il CNSAS è sezione nazionale del Club Alpino Italiano (CAI) e dal 1995 a seguito della pubblicazione della legge n.225 è anche una Struttura Operativa del Servizio Nazionale della Protezione Civile e per questo presta attività al di fuori dell’ambiente montano in caso di calamità naturale, svolgendo un servizio di pubblica utilità.
Questo è in breve il soccorso alpino, ma nell'articolo di oggi non voglio addentrarmi nella sua storia, organizzazione e legislazione, bensì mi preme fornire alcune informazioni utili sul comportamento da tenere nella malaugurata ipotesi di incidente e sul corretto modo per chiedere l'intervento dei soccorritori.
I soccorsi vanno allertati quando si ritiene che, per incidenti od altro, sia seriamente compromessa l’incolumità delle persone coinvolte ed è bene ricordare che ogni intervento costituisce un dispendio di energie e spesso mette in situazione di pericolo gli stessi soccorritori. Qualora ve ne fosse la necessità la richiesta d'aiuto andrà effettuata utilizzando il numero unico per l'emergenza sanitaria, in Italia il 118. Da febbraio 2017 alcune regioni hanno già istituito il numero unico di emergenza europeo (NUE 112) con il quale, indipendentemente dal tipo di emergenza, è possibile inviare la richiesta d'aiuto ad un operatore che raccoglierà la chiamata, ne valuterà la gravità e invierà sul posto i servizi competenti. Dal 2016 per sistemi Android e IOS è disponibile il servizio di geolocalizzazone “GeoResQ” che consente di determinare la propria posizione geografica in e in caso di necessità inoltrare delle richieste di soccorso. Tale servizio è gestito dal CNSAS e da gennaio 2017 l’applicazione sarà gratuita per tutti i soci del CAI. Inoltre è bene sottolineare anche che chiunque intercetti una richiesta di soccorso, ad esempio aderendo al progetto Rete Radio Montana, dovrà trasmetterla tempestivamente alla centrale operativa in modo da mobilitare i soccorsi nel più breve tempo possibile.
Una volta in contatto con la centrale operativa sarà indispensabile rispondere nel modo più chiaro e completo all’operatore che vi farà una serie di domande mirate a raccoglie dei dati fondamentali per l’ottimizzazione dell’intervento stesso. Le informazioni che dobbiamo comunicare in modo rapido ma senza panico possono essere riassunte in dieci punti:
La chiamata sarà impostata come un’intervista durante la quale l’operatore vi porrà domande precise e dirette, alla fine delle quali vi dirà cosa fare per portare un primo soccorso all’infortunato nell’attesa dell’arrivo dei soccorritori.
Qualora le condizioni meteo lo permettano e l’infortunio occorso ne giustifichi l’utilizzo, il soccorso verrà effettuato con l’impiego dell’elicottero. Tale intervento, svolto in ambiente montano, è da considerarsi sempre ad elevata criticità, pertanto è opportuno conoscere alcune semplici regole di comportamento per non intralciare le operazioni di soccorso. Se il terreno lo permette l’elicottero effettuerà una manovra di atterraggio; in questo caso sarà necessario sgomberare l’area allontanandosi in posizione di sicurezza rimanendo fermi fino alla fine dell’intervento. Quando il terreno non permette l’atterraggio il pilota può decidere di adottare una manovra in volo stazionario (hovering) con o senza l’uso del verricello; tale manovra risulta particolarmente delicata ed impegnativa e anche in questo caso nessuno deve avvicinarsi alla zona dove opera la squadra di soccorso. Infine è importante sapere che esiste una segnalazione convenzionale per comunicare con l’elicotterista quando esiste un contatto visivo e non è possibile quello acustico (immagine sopra); ad ogni modo nonostante le indicazioni che potremmo fornire sarà sempre il pilota a decidere il luogo di atterraggio e la manovra da effettuare. Nessuno di noi vorrebbe mai dover effettuare questo genere di chiamata ma come dovresti sapere la componente di imprevedibilità è sempre presente. L’importante come in altre occasioni è mantenere la calma, rispondere in modo chiaro durante la telefonata, assistere nel miglior modo possibile l’infortunato e non intralciare le operazioni di soccorso. Fonti e link utili: Leggi anche:
Nello zaino dell’escursionista, al pari di altri oggetti che non devono mai mancare (es. kit primo soccorso) deve trovare posto un’oggetto che spesso viene considerato di minor importanza, che però in determinate situazioni può risultare fondamentale: la torcia elettrica.
Soprattutto durante la stagione invernale, quando le giornate sono più corte, ma anche durante la bella stagione quando i trekking sono più lunghi, avere con se una buona torcia elettrica può essere fondamentale per concludere l’escursione e tornare a casa sani e salvi. Soprattutto nei mesi di dicembre e gennaio il sole tramonta molto presto, in un tempo davvero breve; come sappiamo la componente di pericolosità oggettiva è sempre presente ed esistono numerose cause che possono portare ad un ritardo sulla tabella di marcia.
Avere con se una torcia garantisce di concludere l’escursione in sicurezza, ad esempio qual ora l’escursionista si accorga di essere in ritardo e non abbia con se fonti luminose sarà costretto ad aumentare il passo oppure a correre per non rischiare di essere colto dal buio; comportamento che aumenta notevolmente il rischio di incidente. Viceversa se l’escursionista ha con se una torcia elettrica può mantenere il passo costante e concludere l’escursione al buio sfruttando la luce artificiale.
La torcia risulta utile anche in caso di infortunio o di smarrimento, per effettuare delle segnalazioni, per farsi notare dai soccorsi o semplicemente per non dover aspettare i soccorritori al buio. Esistono degli altri casi in cui una torcia elettrica torna utile, ad esempio lungo gli itinerari storici dove solitamente è possibile visitare trincee e gallerie della prima guerra mondiale, in rifugio gestito dove in camerata ad una certa ora la luce elettrica viene spenta oppure nelle casere e bivacchi non gestiti dove la luce elettrica non è presente.
Sul mercato esistono numerosi tipi di torce, adatte a qualsiasi situazione; per chi pratica l’escursionismo la miglior tipologia di torcia è sicuramente quella frontale. La torcia frontale si indossa sulla testa e permette all’utilizzatore di avere sempre entrambe le mani libere andando ad illuminare in ogni istante la porzione di terreno davanti a se nella direzione dello sguardo. Le torce di ultima generazione hanno sostituito le tipiche lampadine a incandescenza con le lampadine a LED che producono pochissimo calore, hanno un basso consumo e garantiscono maggior affidabilità. Solitamente il flusso luminoso emesso da una torcia (quanta luce fa) viene misurato in lumen, per il trekking il valore ideale che concilia quantità di luce, sicurezza e salvaguardia delle batterie è di 30/35 lumen. L’alimentazione dipende dalla potenza, può essere a batterie stilo oppure a batterie agli ioni di litio come quelle dei cellulari; tutti sistemi validi che garantiscono diverse ore di luce anche alla massima potenza.
Come già detto di torce frontali (e tradizionali) ne esistono di numerosi tipi e con diverse caratteristiche; quelle da ricercare in una torcia per l’escursionismo possono essere riassunte così: autonomia elevata, impermeabilità almeno all'umidità, affidabilità, basso peso e minimo ingombro. Leggi anche:
Il graduale ritorno del lupo (Canis lupus italicus*) non è semplicemente un’ottima notizia per la “wilderness” dei territori delle Alpi e Appennini ma è soprattutto una notizia di grande importanza dal punto di vista ecologico. Il lupo è un predatore generalista ed opportunista, le sue prede d’elezione sono gli ungulati selvatici che caccia in branco. Grazie alle sue straordinarie capacità tale specie è in grado di andare ad equilibrare le popolazioni di ungulati, predandoli attivamente, ed esercita anche un controllo indiretto su altri predatori. Le predazioni portano ad un miglioramento ambientale, ad esempio il cervo ha grosso impatto sulla foresta e i danni sono minori se la sua densità viene controllata dal lupo. Camosci e stambecchi non sono prede elettive ma il lupo è un animale opportunista e va a predare i soggetti deboli, garantendo un controllo qualitativo della specie. Interessante è anche l’impatto sul cinghiale, il lupo preda principalmente i giovani, che sull’appenino sono diventati la sua fonte trofica principale. Per quanto riguarda i rapporti con gli altri carnivori si è visto come il lupo sottragga risorse alla volpe, a volte predandola attivamente; un numero minore di volpi va a favorire l’aumento del numero di tetraonidi e di piccoli mammiferi come le marmotte. Nei prossimi anni risulterà importante capire come il lupo agisca su di un altro canide in forte espansione negli ultimi anni: lo sciacallo dorato (Canis aureus). Lo sciacallo sembra più numeroso nelle aree dove non ci sono lupi; questi ultimi, infatti, non tollerano la presenza di sciacalli nel loro territorio. La recente espansione dello sciacallo in Europa orientale e occidentale è stata attribuita al declino delle popolazioni di lupi in tempi storici e l'attuale diffusione nell'entroterra alto-adriatico sembra essere in rapida espansione proprio nelle varie aree dove i lupi sono assenti o molto rari. Come abbiamo visto molte popolazioni vengono riequilibrate dal ritorno di una singola specie; ed è proprio questa la grande rilevanza ecologica del lupo. Se questo ritorno fa felici gli amanti della natura e degli animali ci sono alcune categorie che non vedono di buon occhio tale espansione. Il lupo, se ne ha l’occasione, attacca il bestiame domestico che in assenza di forme di protezione è più facile da predare di qualsiasi animale selvatico. La predazione inoltre porta ad una serie di danni indiretti che consistono in aborti, ferite, fuga del bestiame e perdita di produzione del latte. Il conflitto tra allevatori e lupo si sta inasprendo ed è sempre maggiore dove il predatore è tornato da poco tempo e si è persa l’abitudine ad adottare sistemi di difesa per il bestiame. I metodi di prevenzione esistono (recinzioni elettrificate, cani da guardia), sono costosi e il loro utilizzo implica un aumento di lavoro e di stress, che va a gravare su di una categoria non certo ricca e rilassata. Per garantire una coesistenza tra questi animali e gli allevatori sono fondamentali delle campagne di informazione per spiegare come comportarsi e proteggersi dal predatore, a cui devono seguire dei finanziamenti per far sì che gli allevatori possano impostare un corretto sistema di prevenzione. L'Unione Europea ha riconosciuto l'importanza dell'espandersi del lupo sulle Alpi e ha finanziato il progetto Life Wolfalps nell’ambito della programmazione LIFE+ 2007-2013 “Natura e biodiversità”. Il progetto interviene in sette aree chiave e tra gli obiettivi ce né uno destinato alla trasmissione della cultura delle buone pratiche per la conservazione dei capi in alpeggio e delle informazioni relative alla conoscenza dei grandi carnivori per una convivenza stabile tra il lupo e le attività economiche tradizionali. Come abbiamo visto il lupo è un predatore opportunista e intelligente, per questi motivi non riconosce l’uomo come possibile preda, anzi lo identifica come una minaccia da cui allontanarsi il più rapidamente possibile. Nel contesto ecologico-sociale odierno con una situazione di abbondanza di prede in natura, non rientra nella sua strategia l’attaccare degli obiettivi difficili e potenzialmente pericolosi come gli esseri umani. Per millenni i carnivori sono stati nemici e competitori dei nostri progenitori e sicuramente la nostra lunga storia evolutiva non ha cancellato in noi la paura per questi animali. Poi nel corso dei secoli leggende, dicerie e favole hanno dipinto il lupo come un concentrato di malvagità, spesso accostato ai peggiori difetti umani; tutto ciò fa capire come sia stata l’ignoranza a dare al lupo un’immagine negativa che non gli appartiene e non merita. Il lupo è semplicemente un predatore con il quale dobbiamo imparare a rapportarci; nessuna confidenza, un po’di timore e molto rispetto, senza cercare di interferire nelle sue dinamiche. * Il lupo presente in Italia rivela alcune caratteristiche genetiche riconoscibili e peculiari non rinvenibili in individui di altre popolazioni. Attualmente il lupo italiano è ritenuto un ecotipo di quello europeo (Canis lupus lupus), da cui è rimasto isolato per oltre un secolo. * Leggi anche:
Link utili: In Italia da circa quarant’anni, prima nella zona appenninica poi più recentemente anche sulle Alpi, il lupo (Canis lupus italicus*) sta riconquistando la gran parte delle aree montane e collinari ormai quasi totalmente abbandonate dall’uomo. Il lupo nel corso dei secoli non ha mai avuto vita facile, considerato come una specie nociva è stato sistematicamente sterminato in Europa centrale fino alla sua totale scomparsa nei primi decenni del Novecento. Tra il Settecento e l’Ottocento il lupo ha subito una progressiva eradicazione anche nell’est Europa e sulle Alpi, raggiungendo il minimo di popolazione tra gli anni ‘30 e ‘60 del Novecento. Nel corso dei secoli la competizione con gli esseri umani ha portato ad una notevole diminuzione nell’estensione dell’areale di questo mammifero; nonostante ciò grazie alla notevole plasticità ecologica, il lupo è riuscito a sopravvivere con alcune popolazioni isolate in parti dell’Europa e anche in Italia. Purtroppo anche in Italia il lupo ha subito lo stesso trattamento, la caccia al lupo era una professione pagata e riconosciuta. La ricompensa per l’uccisione era a carico delle municipalità, “il luparo” doveva presentare al sindaco la testa dell’animale per riscuotere il premio stabilito. Tale professione, così antica che si fa risalire nella notte dei tempi, venne regolarmente esercitata fino agli inizi degli anni ‘70, quando vennero emanati una serie di interventi a protezione del lupo per garantirne la sopravvivenza. Prima dell’approvazione di tali leggi di protezione il lupo si era già estinto sulle Alpi (1920) e il suo numero sull’Appennino centrale e meridionale non superava le cento unità. La sopravvivenza di alcune popolazioni di lupi sugli Appennini fu possibile grazie al diverso modello insediativo rispetto a quello alpino. Il modello insediativo rurale nelle Alpi era prevalentemente di tipo sparso, per cui il controllo del territorio risultava più capillare rispetto a quello dell’Appennino, dove prevaleva un insediamento accorpato che favoriva la presenza di vasti spazi selvatici. Questo permise al lupo di trovare delle zone di rifugio lungo la dorsale appenninica, tra la Calabria e il crinale tosco-emiliano-romagnolo. Dalla fine degli anni ‘70 ebbe inizio una lenta ripresa della specie, dovuta sia a fattori di natura ecologica che sociale. Come precedentemente detto, nei primi anni ’70, vennero approvate una serie di leggi a livello nazionale ed internazionale che considerarono il lupo una specie non cacciabile ed a alto interesse di conservazione. Nel 1976 un Decreto Ministeriale cancellò il lupo dall’elenco delle specie nocive, vietandone la caccia e l’avvelenamento. A livello europeo con la convenzione di Berna (1979) il lupo venne inserito nell’allegato II “Specie strettamente protette”, poi nel 1992 venne inserito nell’allegato D (“Specie di interesse comunitario che richiedono una protezione rigorosa”) della direttiva Habitat 92/43/CEE. Questa espansione va anche imputata alle caratteristiche proprie di tale specie (adattamento alle diverse fonti di cibo disponibile, capacità di dispersione) e ad una serie di mutamenti economico/sociali avvenuti dopo la fine della seconda guerra mondiale. Fino agli anni '50 le Alpi erano intensamente abitate e sfruttate per il sostentamento di chi vi abitava, poi a partire dagli anni '60 iniziò un massiccio spopolamento. Il progressivo abbandono di ampie zone rurali e della maggior parte delle valli alpine durante il secondo dopoguerra portò all’abbandono di ettari di colline e montagne, che vennero rioccupate dal bosco e dagli ungulati selvatici. Attraverso la cerniera orografica dei monti liguri, gli esemplari di lupo in dispersione riuscirono a rientrare nell’area alpina, protetti dai boschi di neoformazione e non più disturbati visto la scarsa presenza dell’uomo. Un terzo fattore fondamentale per questo ritorno è stato l’istituzione di numerose aree protette che hanno favorito il mantenimento di popolazioni stabili e numerose di ungulati selvatici. Nel corso degli anni numerose sono state le operazioni di reintroduzione di ungulati (capriolo, camoscio, cervo) che hanno favorito e velocizzato il processo di espansione di tali specie. Queste reintroduzioni, assieme all’evoluzione dell’attività venatoria, con il diffondersi della caccia di selezione, hanno sancito il definitivo recupero sull’arco alpino delle popolazioni di ungulati e la loro forte crescita demografica. La presenza di ungulati risulta fondamentale in quanto il lupo è un predatore generalista e opportunista; le sue prede d’elezione sono gli ungulati selvatici, principalmente i cervi ma essendo in grado di adattare la propria dieta a seconda della disponibilità delle risorse preda anche caprioli, daini, camosci, mufloni e cinghiali. In situazioni particolari può predare anche animali di piccola taglia come le marmotte, inoltre non disdegna il bestiame domestico né le carcasse di animali morti. Bisogna sottolineare come questi siano i fattori fondamentali per il ritorno di questa specie e che a differenza di altri ritorni, come l’orso o lo stambecco, non ci siano state reintroduzioni da parte dell’uomo con il prelievo di individui da popolazioni europee. Il lupo presente sulle Alpi è arrivato spontaneamente per colonizzazione naturale dall’appennino, e pian piano si sta spingendo sempre più verso est dove in questi anni si è trovato molto bene sui monti della Lessinia. Qui nel 2013 è stata documentata la riproduzione della prima coppia formata da un lupo proveniente dalle Alpi Dinariche, “Slavc”, e da una femmina proveniente dalle Alpi Occidentali, “Giulietta”. Questo storico evento ha portato al ricongiungimento di due popolazioni diverse non più in contatto da secoli con la formazione di un branco, l’unico per ora noto in tutte le Alpi orientali. * Il lupo presente in Italia rivela alcune caratteristiche genetiche riconoscibili e peculiari non rinvenibili in individui di altre popolazioni. Attualmente il lupo italiano è ritenuto un ecotipo di quello europeo (Canis lupus lupus), da cui è rimasto isolato per oltre un secolo. * Link utili:
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Marzo 2022
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